Le «primarie» sono un aspetto importante della breve storia dell’Ulivo e del Partito democratico. Chiarisco subito che mi atterrò all’uso, improprio rispetto al modello americano, di chiamare primarie anche consultazioni che non hanno come obiettivo quello di scegliere il candidato di un partito o di una coalizione a una carica istituzionale (in Italia: sindaco, presidente di regione, presidente del Consiglio): consultazioni aperte a non iscritti per scegliere cariche di partito sono spesso chiamate impropriamente primarie e anche a queste mi riferisco. Insomma, l’aspetto sul quale volevo fissare l’attenzione è l’apertura o la chiusura del «selettorato», come i politologi chiamano i partecipanti all’elezione, più che non la natura della cariche per le quali le primarie  sono convocate.

Fisso l’attenzione su quest’aspetto per sottolineare che l’uso delle primarie è strettamente legato alla crisi della tradizionale democrazia del «partito-associazione», nella quale i soci (gli iscritti) eleggono a maggioranza e a cascata gli organi dirigenti: dai segretari di circolo sino alla direzione nazionale, da questa alla segreteria e da ultimo al segretario. Questo modello di democrazia – con la crisi del partito ideologico di massa, espressione di stabili fratture storiche – non funziona più: non assicura oggi che un partito si dia organi interni e candidati a cariche istituzionali attraenti per gli stessi elettori che simpatizzano con le politiche sostenute dal partito e con i suoi orientamenti ideologici. Gli iscritti – i soci – sono pochi, sempre di meno; i simpatizzanti sono potenzialmente assai più numerosi. Gli iscritti sono appassionati di politica, diversi dai simpatizzanti che se ne occupano occasionalmente. Gli iscritti sono spesso eredi di vecchie divisioni culturali, di correnti e fazioni radicate nel passato, e rischiano di non avvedersi di quanto stia mutando la società alla quale si rivolgono. Una primaria aperta è prima di tutto un test di popolarità – abbastanza affidabile se attuato su un campione sufficientemente vasto di potenziali elettori – dei candidati alla carica per la quale esso viene condotto. (Un piccolo inciso: ovviamente mi riferisco a primarie serie, non a quelle dei 5Stelle, dove un candidato è scelto – salvo ripensamento del leader – con poche decine di click a livello locale e poche migliaia a livello nazionale.)

E allora: primarie oppure la tradizionale democrazia del partito-associazione? E se primarie: riservate agli iscritti o estese ai simpatizzanti, insomma, chiuse o aperte? Per come le ho descritte, le primarie sono un gioco tra potenziali leader e il selettorato che partecipa alla scelta. Un leader convinto di attrarre sulla sua persona e sul suo programma un selettorato vasto, che intende richiamarsi al partito e alla sua storia ma sarebbe soccombente nella democrazia del partito-associazione o in «primarie» riservate ai soli iscritti, avrà tutto l’interesse a insistere per «primarie» aperte. E vengo agli esempi. Nel Partito democratico, l’eredità dell’Ulivo – dove le primarie aperte erano state l’espediente per rendere popolare e condivisa la scelta di Prodi come candidato alla presidenza del consiglio – e poi lo statuto del partito hanno consentito a Renzi di utilizzarle per la sua ascesa a segretario (e, implicitamente, a capo del governo, vista la coincidenza delle due cariche nel suo programma). Questa via non era disponibile in Gran Bretagna dove le primarie erano riservate ai soli iscritti e questi hanno eletto Corbyn. Era disponibile in Francia, ma le condizioni erano sfavorevoli alla candidatura di un outsider e la conseguenza è stata la vittoria di Hamon. In queste condizioni un potenziale leader di grande fascino, con un orientamento di sinistra liberale – Macron – ha preferito costruirsi in fretta e furia un movimento ad hoc al fine di presentarsi al primo turno delle elezioni presidenziali: come è stato subito notato, in Francia le vere primarie sono state quelle.

Resto dunque dell’opinione che primarie aperte possano essere uno strumento utile per garantire l’effettiva contendibilità delle cariche di partito e di governo, specie in momenti di transizione e conflitto e se accompagnate da regole e cautele che ne garantiscano uno svolgimento corretto. Prima fra tutte, una forte attenzione ai livelli di partecipazione: livelli bassi non garantiscono che il candidato intercetti un'area di consenso più vasta di quella organizzata dal partito e che ci sia un’ampia platea di simpatizzanti cui il partito può rivolgersi. Da  questa analisi sul ruolo delle primarie discendono due considerazioni e un auspicio, a una sommaria lettura dei dati sul processo elettorale che si è appena svolto nel partito democratico.

La prima considerazione riguarda la partecipazione: rispetto al 2013 c’è stato un calo, ma minore di quanto previsto (circa 1.850.000 a fronte dei 2.800.000 del 2013) e il rapporto tra i votanti nei gazebo e nei circoli, tra simpatizzanti e iscritti, è sempre molto elevato, circa sette a uno. La seconda considerazione riguarda i risultati: Renzi ha vinto modo ancor più netto che nel 2013, con il 70% dei voti. E, a differenza del 2013, ha vinto con maggioranze molto simili sia nei gazebo che nei circoli, tra gli iscritti. Insomma, da outsider è diventato insider, il Ceo della «ditta». E la sua posizione politica, riformista e liberal-democratica, per la prima volta è predominante nella lunga storia della sinistra italiana: non un piccolo risultato.

E gli auspici? Lasciando da parte quelli relativi alla strategia politica, nel contesto elettorale proporzionale nel quale siamo ricaduti a seguito della sconfitta referendaria e delle sentenze della Consulta, mi limito a uno che riguarda l’organizzazione del partito ed è più adatto all’occasione. Le primarie hanno dimostrato che il partito c’è. Ma c’è ovunque? Ci sono regioni e grandi città in cui il partito non c’è o è in mano a un notabilato che dei suoi indirizzi nazionali si fa un baffo. Non è forse il caso di intervenire, pur nel rispetto delle diverse condizioni locali e del – moderato – pluralismo politico accettabile in un partito?

 

[In forma ridotta, queste considerazioni sono uscite su un articolo pubblicato dal «Corriere della Sera» il 3 maggio 2017]