Tra due giorni si vota. Qualche ora di campagna elettorale, la più sgangherata cui ho assistito, poi comincia la pausa di riflessione. Un tempo molti italiani ci arrivavano con le idee sufficientemente chiare da non dover riflettere granché. Famiglia, luoghi di lavoro, circoli parrocchiali e sezioni di partito: la politica non ci abbandonava mai del tutto. Spesso la scelta dell’ultimo minuto riguardava la preferenza per una certa persona, piuttosto che quella per il partito. Ricordo ricerche affannose (non c’era Google) per inquadrare meglio il profilo di questo o quel candidato: che opinioni ha sull’economia? o sulla politica estera? è un riformista o un massimalista? Poi, con qualche anno di anticipo, venne la fine del Novecento, che in Italia voleva dire anche il secolo della guerra civile. Terminata in apparenza con la cessazione delle ostilità, nel 1945, ma non dimenticata. Né dai vincitori né dai vinti.

Crescere nel dopoguerra al Sud oppure al Nord voleva dire, tra le altre cose, essere esposti a due versioni piuttosto diverse della storia italiana, dalla presa del potere da parte di Mussolini fino all’entrata in vigore della Costituzione. Muovendosi lungo l’Autostrada del Sole, dalla Lombardia verso la Campania, si potevano incontrare atteggiamenti significativamente diversi nei confronti dell’esperienza fascista, del patto fondativo della Repubblica, della posizione dell’Italia nel mondo. Prospettive opposte che non emergevano mai del tutto nella dimensione pubblica, ma che rendevano difficile lasciarsi del tutto alle spalle l’eredità sanguinosa del fascismo, della guerra e della Liberazione. Certo, a differenza della Spagna, l’Italia non era un Paese ibernato dopo il 1945. La classe dirigente della Repubblica ebbe il coraggio di fare scelte importanti, anche dolorose, che ci condussero ad avere un ruolo importante in Europa e nel mondo. L’adesione al Patto Atlantico, l’inizio del processo di cooperazione e poi di unità in Europa. Dopo la distruzione venne la ricostruzione, lo sviluppo (disordinato e squilibrato, ma nel complesso vantaggioso per tutti) e l’apertura civile e culturale di un Paese che il fascismo aveva chiuso.

Chi è cresciuto nell'Italia del dopoguerra, soprattutto se viene da un ambiente politicamente attivo, porta con sé la memoria di una scia di violenza e di sangue che cesserà soltanto all’inizio del nuovo secolo

Questi aspetti positivi alimentano oggi una certa nostalgia della cosiddetta Prima Repubblica. Che porta alcuni a sottovalutare il peso che continuava ad avere il non essere stati in grado di chiudere davvero i conti col fascismo. Alle vecchie fratture, geografiche e politiche, se ne sovrapponevano altre: la Guerra fredda e le tensioni sociali provocate da uno sviluppo diseguale e da un conflitto distributivo che divenne, negli anni Settanta, in una fase di crisi dell’economia, particolarmente intenso. Chi è cresciuto in quel periodo, soprattutto se viene da un ambiente politicamente attivo, porta con sé la memoria di una scia di violenza e di sangue che cesserà soltanto all’inizio del nuovo secolo (per me il ricordo si rinnova ogni volta che torno a Bologna, percorrendo le strade del centro che dalla stazione mi portano in Strada Maggiore, passando per Piazzetta Marco Biagi).

Ecco perché in retrospettiva tendo a essere piuttosto indulgente con chi, come me, ha vissuto gli ultimi anni del Novecento e l’inizio del nuovo secolo con senso di crescente ottimismo. Anche se i conti della storia non tornavano del tutto, la speranza di lasciarsi alle spalle tutto quel dolore, tutte quelle ingiustizie, e di avere l’opportunità di dare il proprio contributo alla costruzione di un Paese più equo, solidale, accogliente per chi vuole venirci, e attraente per chi se ne è andato, ma vorrebbe essere libero di tornare senza peggiorare la propria posizione. Questo stato d’animo, che trovava espressione nell’uso quasi ossessivo (e in retrospettiva un po’ ridicolo) che in quegli anni facevamo dell’espressione “un Paese normale”, ci faceva sopportare, e sottovalutare, segnali preoccupanti. Nella foga di chiudere con il passato si festeggiava la liquidazione dei partiti che avevano partecipato alla scrittura della costituzione, travolti dalle inchieste sulla corruzione e dall’indignazione popolare, e si accettava persino il ritorno in auge di una destra con profonde radici neofasciste come un sintomo di “normalità”. Si abbracciava un modello di sviluppo e di modernizzazione politica d’importazione, senza farsi troppe domande sulle tante fratture che stava provocando nei paesi che lo avevano già implementato (le delocalizzazioni, l’impoverimento dei lavoratori, l’arretramento del Welfare, la distruzione dell’ambiente erano già davanti ai nostri occhi, ma preferivamo non guardare con troppa attenzione, affidandoci al progresso come conveniente succedaneo della provvidenza divina).

Quel che viene dopo è storia recente, di cui su questa rivista ci siamo occupati spesso, e continueremo a farlo. Nella fretta di diventare normali abbiamo normalizzato il neofascismo che era sopravvissuto nei sistemi periferici della nostra sfera pubblica, sempre meno vulnerabile all’antibiotico della costituzione. Anche perché, col passare delle generazioni, chi aveva vissuto il Fascismo e la guerra, e combattuto (nella resistenza o nell’esercito regolare) per la liberazione dell’Italia non c’era più. Che il tema della memoria condivisa fosse essenziale per entrare nel nuovo secolo senza deficit morali fu compreso da alcuni, per tutti vorrei ricordare Carlo Azeglio Ciampi, ma la spinta del nuovo, anche a sinistra e tra i liberali, era irresistibile. L’unico debito di cui dovevamo preoccuparci era quello dei conti pubblici, standard infallibile di una politica che si voleva ridotta a tecnica.

Poco a poco, a partire dalla crisi finanziaria del 2008, la situazione politica e sociale del Paese è andata peggiorando. Anche perché a quella crisi, come ha osservato Adam Tooze, ne sono seguite altre – il Covid, la guerra in Ucraina – che hanno aperto falle sempre più grandi nel fasciame di una nave che non era fatta per reggere una tempesta di queste proporzioni. Mentre si tenta di chiuderne una, se ne apre un’altra, e tra i passeggeri cresce il timore che la nave affondi. Le sfide che abbiamo davanti sono epocali, ma le risorse morali e materiali con cui affrontarle no.

A partire dalla crisi finanziaria del 2008, la situazione politica e sociale del Paese è andata peggiorando. Anche perché a quella crisi ne sono seguite altre – il Covid, la guerra in Ucraina – che hanno aperto falle sempre più grandi in una nave che non era fatta per reggere una tempesta di queste proporzioni

Questo è il clima in cui andiamo al voto. Da settimane i sondaggi descrivono un panorama politico profondamente mutato, che aumenta la preoccupazione (lo vediamo in queste ore leggendo la stampa internazionale) per la stabilità del Paese. Se le previsioni fossero corrette, si profila una vittoria della destra. Fratelli d’Italia primo partito, con la Lega e Forza Italia assai ridimensionate ma ancora capaci di avere un ruolo. Per il Pd si annuncia una sconfitta, e la vera questione per il futuro riguarda le proporzioni della disfatta e la capacità dei dirigenti di tenere insieme il partito e di traghettarlo su posizioni che tornino a essere attrattive per chi si è allontanato, sia verso destra (dove ci sono i partitini personali di Calenda e Renzi) sia verso sinistra, dove si agita una nebulosa che per ora ha trovato espressione in Unione Popolare, ma che potrebbe rimanere fuori dal Parlamento. Ad aggiungere incertezza c’è la situazione del M5S, che tutti i sondaggi danno in rimonta, alcuni anche significativa. Se la forza politica guidata da Giuseppe Conte avesse un buon risultato, sarebbe confermata la previsione di chi invitava a non scommettere sulla scissione di Di Maio (fortemente pompata da una stampa che da anni ha perso la capacità di leggere il Paese).

Una parte dei voti che il Pd perderà potrebbero andare (oltre che ad aumentare le file degli astenuti) al M5S, e questo è un sintomo della confusione di idee del nostro tempo (fare male politiche redistributive non vuol dire essere socialisti), ma anche dell’incapacità della classe dirigente del Pd di fare i conti con le colossali trasformazioni della nostra epoca.

Gli appelli a non lasciare aperta la strada ai fascisti (o ai “populisti” come si è ripetuto fino alla nausea, e senza alcun risultato in questi ultimi anni) sono destinati probabilmente ad avere un effetto limitato. In primo luogo perché una parte consistente degli elettori, anche di quelli più anziani, si è ormai lasciata alle spalle i valori e principi del patto costituzionale. La politica italiana non poggia più su un terreno comune, e anche la sinistra e i liberali hanno dato un contributo significativo a dissestarlo. La frana è già in corso da tempo, come abbiamo visto negli anni dell’ascesa del M5S. Nel nuovo clima la prospettiva di una maggioranza in cui c’è un partito che ha un significativo legame, mai del tutto reciso, con il neofascismo post-bellico, non smuove le coscienze più di tanto. La paura spinge molti a affidarsi a chi si fa un vanto della propria forza. Anni e anni di erosione dei legami di solidarietà allargata hanno abituato gli italiani a pensare in primo luogo a sé stessi, e le aspettative decrescenti del ceto medio lo rendono più che disponibile a provare un’alternativa a chi non riesce a proporre qualcosa di diverso dal modello sociale emerso dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989.

Anni e anni di erosione dei legami di solidarietà allargata hanno abituato gli italiani a pensare in primo luogo a sé stessi, e le aspettative decrescenti del ceto medio lo rendono più che disponibile a provare un’alternativa

Se questa destra andrà al governo con una maggioranza significativa le cose che potrebbero andar male sono diverse, sul piano dei rapporti internazionali, dell’economia e della Costituzione (ne hanno scritto per noi nei giorni scorsi Norberto Dilmore, Enzo Cheli e Michele Salvati). Gli scenari allo stato attuale mi sembrano due. Nel primo la destra vince con una solida maggioranza e va al governo. Ciò non vuol dire che Giorgia Meloni vada necessariamente a Palazzo Chigi. La leader di Fratelli d’Italia si troverebbe davanti a una scelta, infatti, tra realizzare le proprie (legittime) ambizioni politiche (primo presidente del consiglio proveniente dalla destra di radice neofascista e prima donna a ricoprire questo incarico) e lasciare invece il posto a una figura con un profilo più istituzionale, che abbia nell’immediato la capacità di raffreddare il clima, soprattutto sul piano internazionale, in un passaggio che potrebbe essere difficile e persino drammatico. Questa scelta presenterebbe dei rischi, il presidente del consiglio potrebbe diventare un contrappeso rispetto al leader del partito di maggioranza nella coalizione, ma non sarebbe priva di precedenti nella nostra storia politica, e le lascerebbe il tempo per lavorare al partito. Una vittoria con ampio margine potrebbe far emergere, infatti, quegli ambienti che Meloni ha tentato di tenere in disparte durante la campagna elettorale, con effetti difficili da controllare. La cultura del neofascismo si alimentava anche del mito della revanche, una cosa di cui nessuno, neanche i dirigenti più pragmatici di Fratelli d’Italia credo che avverta il bisogno. L’ipotesi di un presidente del consiglio di area, ma con un profilo più istituzionale, potrebbe anche facilitare l’ingresso nella compagine di governo di figure che avrebbero delle remore a mettersi a disposizione nel caso in cui a Palazzo Chigi ci fosse una leader che viene da un partito con radici neofasciste. Tutto sommato, non credo che la seconda variante del primo scenario sia la più probabile, ma il fatto che la stessa Giorgia Meloni abbia ammesso, in un’intervista di qualche settimana fa, di non avere una classe dirigente, fa pensare che si renda conto dei rischi che correrebbe facendo un passo falso.

Nel secondo scenario, invece, le urne ci riservano una sorpresa, e la destra non ha i voti sufficienti per sostenere il governo in entrambe le Camere. Non credo che l’ipotesi di un governo istituzionale sarebbe in questo caso la più probabile, e forse neppure auspicabile (ne ho già scritto in passato), anche perché, salvo che i sondaggi vengano totalmente smentiti, i voti indispensabili non sarebbero molti. In questo caso, credo che l’ipotesi più probabile è che si apra un dialogo tra la destra e il centro neoliberale. Qualche segnale timido di disponibilità si è già visto nelle ultime settimane con i diversi interventi di esponenti di quel mondo che si sono prodigati nel redigere liste di impegni che Giorgia Meloni dovrebbe assumere e rispettare per poter contare su un consenso più ampio rispetto a quello garantito dalla sua maggioranza. Inutile dire che il segno di questi suggerimenti va tutto nella direzione di politiche pro-business. Una prospettiva di questo tipo innescherebbe verosimilmente una resa dei conti all’interno del Pd, tra centristi e socialdemocratici, di cui si comincia già a vedere qualche segnale prima del voto.

Stiamo navigando in acque sconosciute, e non sappiamo se ci sia un porto nelle vicinanze. In una situazione del genere ci sono due cose che non possiamo permetterci di perdere, il sangue freddo e la speranza in un futuro migliore.