Quando, all’inizio del Novecento, lo studioso inglese Seebohm Rowntree elaborò il suo metodo di calcolo del “minimo vitale”, uno dei primi esempi di rilevazione empirica della povertà, incluse tra i bisogni da garantire anche quello di comprare “bambole, biglie o dolciumi” ai bambini e “vestiti graziosi” alla moglie, di concedersi uno svago come consumare una birra al pub o prendere parte a un concerto popolare e di pagare le spese postali per inviare una lettera ai parenti lontani. Per Rowntree, e prima di lui per Adam Smith, essere povero non comportava solo gravi privazioni di cibo, alloggio e istruzione, ma il sentimento ben più complesso del “provare vergogna in pubblico”.

L’attenzione morbosa rivolta al carrello della spesa di chi utilizza per pagare al supermercato la carta del “reddito di cittadinanza” non tiene conto di questa necessità di conservare la propria dignità in condizioni difficili.

Solidarietà e compassione sono merce sempre più rara. Soprattutto poi nei confronti di chi è in condizione di povertà o disoccupazione nel Mezzogiorno. L’assunto che il disoccupato sia un falso disoccupato e che un povero sia quantomeno scialacquone sembra dominare il senso comune e la stessa sinistra. Ma di questa merce ce n’era poca anche nel 1901. D’altro canto l’odiosa distinzione tra i deserving poor (non “poors”, parola non esistente in inglese ma molto usata in Italia) e gli undeserving poor, tra i meritevoli e i non meritevoli dell’assistenza, fu inventata con grande crudeltà nel 1834 proprio dagli inglesi. Nulla bisogna avere senza sacrifici, senza doversi vergognare e senza mostrare meritevolezza ai gratuiti censori. E guai agli sfrontati. Si pensi ancora che il termine dole (mangiatoia) in Inghilterra veniva usato per indicare non solo i sussidi o il percepimento di sussidi, ma anche la semplice situazione di disoccupazione. C’è un bel libro degli anni Trenta, Love on the dole, che racconta la storia dolorosa di una coppia di disoccupati. Anche di loro si diceva che stavano in pigrizia ad aspettare il sussidio.

In base alla nostra esperienza, il non dover continuamente “provar vergogna” per la propria miseria ci è parso uno degli effetti più significativi e apprezzati dai beneficiari del cosiddetto “reddito di cittadinanza”, soprattutto da quanti sono scivolati più in basso negli ultimi anni: famiglie di ex operai senza altre forme di sostegno, famiglie cui è mancato il reddito pensionistico per la scomparsa di qualche membro più anziano, famiglie alle quali non basta il lavoro mal pagato della madre o i 50 euro a settimana del figlio che lavora in un bar.

Anziché condurre astrusi e astratti calcoli sul “salario di riserva” – per illustrare le assurde pretese dei giovani meridionali che non si contentano delle opportunità loro offerte – sarebbe utile fare qualche giro per i vicoli e le periferie di Potenza o Palermo e chiedere ai ragazzi che lavorano in un bar o in una bottega quanto guadagnano.

Il respiro di sollievo tirato in molti luoghi del Mezzogiorno dalla gente povera dovrebbe rappresentare un incentivo a riforme e aggiustamenti dell’intervento soprattutto a vantaggio di chi non ha alternative concrete né in loco, né – ammesso che possa andarsene – altrove. Invece si preferisce denunciare gli abusi e i reali o presunti disincentivi al lavoro connessi all’intervento, dimenticando la gravità della situazione di partenza e le sue cause. Per calcolo politico o per pura e semplice insensibilità si è scelta la via dell’insulto.

La preoccupazione di subordinare la prestazione alla condotta degli aventi diritto, anche quando sia sostenuta dal proposito di attenuare il carattere burocratico e impersonale degli interventi rivolti ai poveri ed evitare fenomeni di demoralizzazione, non riguarda solo l’Italia. Essa rientra tra i meccanismi retorici che per Albert Hirschman hanno sempre accompagnato lo scontro tra spinte riformatrici e controspinte reazionarie e che egli ha riassunto sotto la denominazione di “tesi della perversità”: gli effetti perversi temuti dai conservatori sarebbero in questo caso l’indebolimento dell’etica del lavoro e l’aumento del salario di riserva. La peculiarità del caso italiano consiste, semmai, nei soggetti vittime della riprovazione. In altri contesti, in primo luogo Inghilterra e Stati Uniti, le figure maggiormente scelte a rappresentare la “cultura della dipendenza” sono l’eccentrica e furba “Welfare queen”, l’immatura e irresponsabile “madre-teenager” e l’inconcludente disoccupato “padre nullafacente”: figure spesso appartenenti a minoranze etniche o razziali (ricordando qui che la “razza” è un costrutto sociale). In Italia invece l’attenzione si è concentrata soprattutto sulla famiglia meridionale, magari di Pomigliano D’Arco (paese natale di Luigi Di Maio, ma anche sede di una delle più importanti fabbriche automobilistica del Sud) dove tutti – secondo credenza diffusa – lavorano al nero in aggiunta al sussidio. Ad essa va aggiunta, nelle immagini diffamatorie, la figura dell’immigrato che, infischiandosene del “prima gli italiani”, rivendica il suo diritto a condizioni di vita dignitose (e spesso si tratta anche in questo caso di famiglie con figli).

 

[L'articolo completo pubblicato sul "Mulino" n. 1/20, pp. 53-63, è acquistabile qui