Quando il 17 gennaio del 2014 un gruppo di giovani politologi e attivisti presentò una nuova formazione politica di sinistra nel popolare quartiere madrileno di Lavapiés, nessuno avrebbe scommesso due soldi bucati sul fatto che in soli sei anni sarebbe arrivata al governo del Paese. È pur vero che la Spagna viveva da un triennio un intenso ciclo di proteste, ma la capacità di creare a sinistra un nuovo attore politico che riuscisse a canalizzare il malcontento e la rabbia popolare era un compito improbo in un Paese dove i due grandi partiti ottenevano oltre il 70% dei voti. All’epoca, nei movimenti si guardava con speranza a quel che succedeva in Grecia e si studiava il modello di Syriza. Con la crisi economica si era aperto uno spazio a sinistra e il sorpasso ai socialisti, in profonda crisi come in tutta Europa, non sembrava un sogno irrealizzabile.

Podemos, il cui nome rievoca l’obamiano "Yes, We Can", era figlio di quella fase iniziata con l’occupazione delle piazze delle principali città iberiche e il movimento degli Indignados nella primavera del 2011

Podemos, il cui nome rievoca l’obamiano «Yes, We Can», era figlio di quella fase iniziata con l’occupazione delle piazze delle principali città iberiche e il movimento degli Indignados della primavera del 2011. Una fase segnata dal protagonismo delle Mareas in difesa della sanità e dell’educazione pubblica – che stavano soffrendo pesanti tagli per le politiche austeritarie del governo conservatore di Mariano Rajoy – e della Plataforma de Afectados por la Hipoteca – oltre mezzo milione di famiglie perse la casa a causa dei mutui ipotecari – che, guidata da una giovane attivista di Barcellona, Ada Colau, aveva raccolto oltre un milione di firme con la proposta di una legge di iniziativa popolare per risolvere quello che si era convertito in un vero e proprio dramma sociale.

Il risultato delle europee del maggio 2014 – 8% dei voti e 5 eurodeputati –  diede ragione a Pablo Iglesias, Íñigo Errejón e Juan Carlos Monedero, i fondatori di Podemos. Si trattò di un vero e proprio tsunami per il sistema politico spagnolo nato dopo la fine della dittatura franchista che, tra le tensioni territoriali con la Catalogna, l’abdicazione del re Juan Carlos I e la perdita di consensi da parte di popolari e socialisti, stava vivendo una profonda crisi.

Nei mesi successivi Podemos iniziò a strutturarsi, a partire dai circoli di base che riuscirono in un primo momento a convogliare le molte energie dei movimenti sociali degli anni precedenti, costruendo un’intelligente coalizione confederale con formazioni nate a livello locale in diverse regioni del Paese. Sull’onda lunga della vittoria di Alexis Tsipras ad Atene nel gennaio successivo, alle elezioni comunali del maggio del 2015 le piattaforme municipaliste – in cui partecipava anche il partito guidato da Pablo Iglesias – conquistarono le principali città spagnole, a partire da Madrid con Manuela Carmena e Barcellona con Ada Colau. Mentre nelle legislative di dicembre Podemos fu sul punto di superare il Partido Socialista Obrero Español (Psoe), ottenendo oltre il 20% dei suffragi e più di 5 milioni di voti. Non fu possibile un accordo con i socialisti né coi liberali di centrodestra di Ciudadanos e si ritornò alle urne sei mesi dopo: Podemos si confermò come terza forza nelle Cortes di Madrid, ma non riuscì a capitalizzare l’alleanza con Izquierda Unida (Iu), a cui si era arrivati non senza tensioni interne.

Il settore facente capo a Errejón, influenzato più di Iglesias dall’ipotesi populista di Ernesto Laclau, non condivideva uno spostamento così netto a sinistra: non si trattava tanto di programmi e idee, ma di narrativa e simboli. Errejón ribadiva che per essere egemonici e rompere gli steccati elettorali della sinistra tradizionale bisognava proporsi come «né di destra, né di sinistra». Si badi bene: niente a che vedere con il Movimento 5 Stelle con cui Podemos è stato sovente paragonato. In realtà, gli eurodeputati di Podemos si sedettero fin dal primo giorno nel gruppo della sinistra europea e nella politica spagnola non si sognarono mai di allearsi con partiti di destra, più o meno estrema. Tra i due progetti si può trovare qualche similitudine nel ricorso al populismo – ma chi non lo ha fatto in un’epoca come la nostra? – e nella rivendicazione della democrazia diretta e delle votazioni online. Anche in questo secondo caso, però, le differenze sono ben maggiori delle analogie: rispetto a quelle del M5S, infatti, le votazioni interne di Podemos sono affidate a un’impresa esterna e non vi è mai stato nessun dubbio sulla loro trasparenza.

Per quanto, dunque, tra il 2015 e il 2016 Podemos si era affermato come l’unica forza della sinistra europea, al di là di Syriza, con oltre il 20% dei consensi, si era capito che l’«asalto a los cielos» difeso da Iglesias, ossia la conquista del potere previo sorpasso del Psoe, non era fattibile. Come procedere, dunque, per superare lo stallo? Anche di questo si discusse nel secondo congresso del partito, tenutosi a Vistalegre all’inizio del 2017, dove Iglesias sconfisse Errejón e si confermò segretario generale.

In realtà, fin dal dicembre del 2015 i numeri in Parlamento avrebbero permesso un governo di sinistra, per quanto di minoranza, ma la competizione tra Podemos e i socialisti e le tensioni territoriali – in primis quella catalana – avevano impedito un accordo. Si dovette attendere un nuovo scandalo di corruzione nel Partido Popular per tessere le fila di una mozione di sfiducia che portò il socialista Pedro Sánchez al Palacio de la Moncloa con l’appoggio di Podemos e le formazioni nazionaliste e regionaliste catalane e basche. Visto a posteriori si trattò di un primo passo verso la coalizione di governo che si formò nel gennaio dello scorso anno.

La maturazione è stata però lenta e non priva di tensioni, sia nei primi mesi di governo in minoranza del Psoe, sia durante tutto il 2019, segnato dal fallimento di un accordo dopo il voto anticipato del mese di aprile e da un’ulteriore ripetizione elettorale che ha rafforzato l’estrema destra di Vox. Un anno non facile per il partito di Iglesias in cui si è anche consumata la scissione del settore errejonista, che si sommava al distanziamento di altri dirigenti del partito e della corrente anticapitalista, e la sconfitta, eccetto a Barcellona e Cadice, delle piattaforme municipaliste nelle elezioni comunali della primavera. Nonostante tutto, Unidas Podemos – che cambiava nome rafforzando la coalizione con Iu – sfiorava il 13% e portava nelle Cortes 35 deputati, appena la metà, comunque, del bottino conquistato nel 2015-2016.

Il ciclo iniziato con gli Indignados si era definitivamente chiuso, la distanza con i socialisti (28%, 120 deputati) era ormai incolmabile e la nuova fase imponeva un sano realismo da parte di tutti per evitare un trionfo delle destre. Nasceva così il primo governo di coalizione di sinistra nella Spagna democratica; un esecutivo di minoranza appoggiato da diverse formazioni regionaliste e nazionaliste in un Parlamento sempre più frammentato. Seppur nel nuovo governo Podemos era il socio di minoranza, in soli sei anni Iglesias si era trasformato da un pressoché sconosciuto professore di scienze politiche e attivista in vicepresidente e Podemos poteva designare cinque ministri responsabili di dicasteri simbolo di alcune delle lotte del partito, come il lavoro, i diritti sociali, l’uguaglianza di genere o l’Università.

Podemos è riuscito a spostare a sinistra i socialisti, facendogli abbandonare, almeno per ora, le mai sopite passioni blairiane. Non è poco, tenendo conto del panorama europeo dove la sinistra radicale brilla per la sua assenza o per la sua incapacità di incidere sulle politiche governative

Il programma di governo è stato stravolto ovviamente dalla pandemia, per quanto si siano riuscite ad approvare, pur nel mezzo dell’emergenza e non senza frizioni con l’ala socioliberale del Psoe, importanti misure come il reddito minimo garantito, un aumento considerevole della spesa sociale, la legge sull’eutanasia e altre – dalla legge sui diritti delle persone trans alla legge sugli affitti – siano in dirittura di arrivo. Non c’è dubbio quindi che Podemos sia riuscito a spostare a sinistra i socialisti, facendogli abbandonare, per quanto non sempre, le mai sopite passioni blairiane. Non è poco tenendo conto del panorama europeo dove la sinistra radicale brilla per la sua assenza o per la sua incapacità di incidere sulle politiche governative.

Detto questo, il futuro di Unidas Podemos rimane un’incognita. Il partito ha sì uno zoccolo duro di votanti che si aggira attorno al 10%, ma a livello locale, eccetto alcune roccaforti, non è riuscito a strutturarsi e a livello interno si è persa quella ricchezza che aveva segnato gli inizi. Anche per questo Iglesias, spesso accusato di esercitare una leadership troppo personalistica, si è dimesso lo scorso mese di marzo dalla vicepresidenza del governo per presentarsi come candidato alle elezioni regionali di Madrid del prossimo 4 maggio. La giocata, coraggiosa e forse azzardata, si propone di evitare una vittoria delle destre, forgiando una coalizione di sinistra a livello regionale, e di favorire un rinnovamento nei vertici della formazione con l’indicazione dell’attuale ministra del Lavoro Yolanda Díaz, molto apprezzata dalle parti sociali, come futura candidata di Unidas Podemos. Ma l’obiettivo è anche quello di avere le mani più libere per poter recuperare la dimensione «di lotta» del partito, senza perdere i ruoli conquistati nel governo. Evitare, in sintesi, di finire divorati dal Psoe come spesso è successo alle formazioni di sinistra radicale in governi di coalizione, vedasi i casi del Pcf con Jospin o di Rifondazione comunista con Prodi.

Ci riuscirà? Non sarà facile. Vedremo come proseguirà la legislatura, che si dovrebbe concludere alla fine del 2023, e come la Spagna uscirà dalla crisi sanitaria e socio-economica dovuta al Covid-19. Quel che è certo è che in pochi anni, e senza nulla togliere agli errori commessi, Podemos ha dimostrato una grande capacità di maturazione e di pragmatismo senza per questo perdere di vista i propri principi. Di questi tempi, probabilmente, non si può chiedere di più.