Il 23 settembre è mancato, a 92 anni, Pietro Rossi. Un grande intellettuale, il cui nome è legato soprattutto alle ricerche sullo storicismo tedesco e su Max Weber, che egli ebbe il merito di introdurre nella cultura italiana sin dalla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso. Il suo Lo storicismo tedesco contemporaneo (1956) è subito diventato un riferimento imprescindibile, come i successivi studi più specificamente dedicati a Max Weber (Vom Historismus zur historischen Sozialwissenschaft, 1987; Max Weber. Oltre lo storicismo, 1988; Max Weber. Un’idea di Occidente, 2007). Ma egli contribuì anche alla conoscenza dello storicismo nel nostro paese con una lunga serie di traduzioni, che va dal 1954 al 2003, dei testi fondamentali di Dilthey e, ancora una volta, di Weber. Per questi suoi meriti scientifici, che hanno rappresentato al più alto livello la cultura italiana in Germania, ha ricevuto dalla Alexander von Humboldt-Stiftung un premio di ricerca per le “scienze dello spirito” e, soprattutto, è stato insignito della Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Federale di Germania.

L’interesse di Rossi per lo storicismo non aveva soltanto un carattere storico. Nell’Italia del dopoguerra, ancora fortemente condizionata dalla cultura idealistica, i suoi studi consentivano di scoprire una forma di storicismo liberata da radici idealistiche e romantiche, mentre altre scuole filosofiche italiane ancora contrapponevano positivamente lo storicismo di Croce a quello hegeliano. Si trattava dunque di far entrare aria fresca nella stanza stantia della filosofia italiana, mentre altri aprivano la porta alla filosofia anglosassone, vuoi con il riferimento al pragmatismo deweyano, vuoi con i primi timidi accessi all’analisi oxoniense del linguaggio. In particolare, la frequentazione del pensiero di Weber introduceva a modelli di razionalità dimenticati dalla metafisica idealistica e spiritualistica: non più legati alla dimensione ontologica, ma utilizzabili invece, sul piano metodologico, come strumenti formali per interpretare la realtà storica e sociale. Si trattava quindi non solo di scoprire un indirizzo della filosofia europea pressoché sconosciuto nell’ambiente italiano, ma di promuovere una stagione di rinnovamento culturale e di apertura a nuovi strumenti teorici. Certo la vivacità di quest’operazione dipendeva in gran parte, per contrasto, dalla depressione del panorama filosofico italiano del tempo. Condizionata dalla situazione storica, l’impresa era destinata con il tempo a far prevalere la valenza storiografica sulla propulsione teorica, come riconoscerà lo stesso Rossi in un più maturo e meditato Congedo dallo storicismo.

Lo storicismo non esaurisce però gli interessi scientifici di Rossi. Allievo di Nicola Abbagnano, insieme a Carlo Augusto Viano, che sarà per tutta la vita il suo amico più intimo (il “mio gemello intellettuale”, amava dire), egli vive con profonda partecipazione l’intensa, seppur breve stagione del neoilluminismo. Malgrado la più giovane età rispetto ai protagonisti del movimento, o forse in ragione di essa, egli intuisce tuttavia che le aspirazioni al rinnovamento intellettuale del neoilluminismo non sono destinate a portare frutti duraturi a causa della grande eterogeneità culturale degli aderenti. Rossi è quindi indotto a sviluppare la sua analisi concettuale soprattutto attraverso l’indagine storica, intesa però non alla stregua di una semplice ricostruzione, ma piuttosto come occasione per la definizione di modelli concettuali a loro volta in funzione di precise alternative teoriche. La stessa indagine sullo storicismo tedesco è sicuramente uno dei filoni perseguiti a questo scopo. Ma ad essa si affianca successivamente l’interesse per l’illuminismo e per il positivismo, indagati tuttavia attraverso una prospettiva specifica: la costruzione di una filosofia della storia e di una scienza storica il primo, la relazione con le scienze sociali il secondo.

Soprattutto negli anni Settanta si rafforza in Rossi l’interesse per le scienze sociali, radicato ovviamente negli studi su Weber, ma condiviso già da Abbagnano, che insieme a Franco Ferrarotti aveva fondato i “Quaderni di Sociologia”, del cui Comitato direttivo Rossi fece parte dal 1962 al 1978 (oltre a dirigere la “Rivista di filosofia”, edita dal Mulino, dal 1985 al 2005). Ha anche fatto parte del Comitato direttivo della Enciclopedia delle scienze sociali , pubblicata dall'Istituto della Enciclopedia italiana (1991-1999), nonché dell'International Advisory Board della International Encyclopedia of the Social and Behavioral Sciences, pubblicata in ventisei volumi dalla Pergamon Press.

Ma la propensione per le scienze della società non andò mai disgiunta in Rossi dalla prospettiva filosofica, come dimostra una fortunata serie di antologie sulle “Scienze sociali” da lui curata per la casa editrice Loescher. Rossi era convinto che la filosofia rischiasse di diventare un puro esercizio teorico se non si applicava a qualche disciplina concreta. Le scienze sociali, oggetto di particolare interesse da parte della cultura post-sessantottina, rappresentavano un ambito di ricerca privilegiato in tal senso: a loro volta, esse potevano ricevere dalla filosofia l’inquadramento concettuale necessario a sollevare la disciplina dalla semplice rielaborazione teorica di situazioni particolari. Nella stessa prospettiva va letto l’interesse di Rossi per il marxismo, considerato più una teoria sociale che una dottrina politica, come dimostrano vari saggi poi confluiti in Marxismo del 1996, uscito da Laterza. La stessa aspirazione a combinare ricerca storica e analisi teorica all’interno di indagini specifiche muove l’interesse di Rossi per le origini dell’antropologia e il concetto di cultura da un lato e il loro riflesso sulle scienze sociali contemporanee dall’altro (Antropologia e cultura, Einaudi, 1983).

L’interesse per la storiografia è rafforzato dal desiderio di individuare precise alternative metodologiche in una disciplina radicata nel reale come la storia

Parallelamente all’interesse per le scienze sociali, si sviluppa in Rossi quello per la teoria della storiografia. Ovviamente anche in questo caso le radici devono essere ricercate nelle indagini storicistiche, soprattutto su Windelband, Rickert e Dilthey. E, andando ancora più indietro, non è certo rimasto senza influenza il periodo di studio passato dal giovanissimo Rossi all’Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napoli, dove ebbe la possibilità di seguire le lezioni di personalità come Federico Chabod, Karl Löwith e Hans-Georg Gadamer. Ma anche in questo caso l’interesse per la storiografia è rafforzato dal desiderio di individuare precise alternative metodologiche in una disciplina radicata nel reale come la storia. Anzi, si può osservare come a partire dagli anni Ottanta l’interesse per la storia e i suoi problemi metodologici sopravanzi quello per le scienze sociali, almeno nella dimensione teorica. Lo dimostra una serie di volumi collettivi da lui curati, che raccolgono le relazioni di un Convegno internazionale organizzato a Torino nel 1981 (La teoria della storiografia, oggi, Il Saggiatore, 1983; tradotto in tedesco nel 1990), nonché alcuni seminari tenuti all’Università o in scuole estive, nelle quali egli ebbe il merito di valorizzare molti giovani studiosi che provenivano da tutta Italia e da scuole di pensiero molto diverse da quella torinese (La storiografia contemporanea. Indirizzi e problemi, Il Saggiatore, 1987; La storia comparata. Approcci e prospettive, Il Saggiatore, 1990).

Negli ultimi anni Pietro Rossi sviluppò un particolare interesse per la global history, intrecciando un rapporto di proficua amicizia con Jürgen Osterhammel, che di questa disciplina rappresenta uno dei più rilevanti cultori a livello internazionale. Rossi non giunse a una propria elaborazione originale della teoria della “storia globale”, ma l’applicò in maniera indiretta nei suoi ultimi lavori dedicati alla storia dell’Europa. Una vena di scetticismo attraversa però questi lavori, raffreddando quel genuino spirito europeista che aveva sviluppato negli anni della maturità. Ripercorrendo tutta la storia europea e intrecciando la dimensione culturale a quella più strettamente politica e socio-economica, egli giunge pertanto a conclusioni piuttosto negative sia per quanto riguarda la possibilità di definire una cultura identitaria dell’Europa (L’identità dell’Europa, Il Mulino, 2007), sia per quanto concerne il futuro dell’Unione europea (L’Europa che fu, Il Mulino, 2017). Idee che ebbe modo di esporre anche sulle pagine si questa rivista (L’Europa in un mondo plurale, “il Mulino”, n. 5/2017), alla quale ha collaborato sino allo scorso anno, tornando infine all’amato Max Weber (Max Weber e l’ambivalenza del Beruf, “il Mulino”, n. 1/2022). Un’ombra di pessimismo, forse prodotto dell’età avanzata, impedisce ormai a Rossi di guardare alla cultura con quella fiducia che negli anni giovanili gli aveva consentito di intravvedere – neoilluministicamente – nei modelli concettuali dello storicismo, come in quelli dell’illuminismo e del positivismo, una potenziale espressione di emancipazione e progresso.

Un filosofo che per tutta la vita si è occupato di problemi storiografici non poteva non impegnarsi egli stesso nell’esercizio della storia della filosofia. Con l’amico di sempre, Carlo A. Viano, curò la Storia della filosofia edita da Laterza in sei volumi, redigendo di sua mano molti capitoli. E, come Viano, dedicò parte della sua attività di storico della filosofia al pensiero italiano, mettendo capo a vari saggi e al volume Avventure e disavventure della filosofia. Saggi sul pensiero italiano del Novecento (Il Mulino, 2009), che fin dal titolo annunciava la sua intenzione di essere storico imparziale, ma non semplice cronachista.

Lavorare per le istituzioni significa anche sapersi mettere in gioco, prendere posizione, sostenere conflitti. Non si tirò mai indietro. E lo fece sempre avendo presente quello che era per lui il bene dell’istituzione

Pietro Rossi, infatti, era un uomo che non si esimeva dal prendere posizione. Lo fece come studioso, ma lo fece anche come uomo delle istituzioni. Professore universitario, molto vicino sin dagli inizi al gruppo del Mulino e amico dei suoi primi artefici, membro del Consiglio Universitario Nazionale, consigliere di Fondazioni, socio di illustri Accademie come l’Accademia Nazionale dei Lincei e l’Accademia delle Scienze di Torino, della quale fu presidente per due mandati e al cui rinnovamento contribuì in maniera determinante, egli si spese con generosità per le istituzioni. Ma lavorare per le istituzioni significa anche sapersi mettere in gioco, prendere posizione, sostenere conflitti. Rossi non si tirò mai indietro da queste cose. Però lo fece sempre avendo presente quello che era per lui il bene dell’istituzione, non il suo interesse di parte. Nelle battaglie, accademiche o istituzionali, si comportò sempre con grande lealtà, cosa che gli fu riconosciuta anche dagli avversari. Pietro Rossi era un intellettuale di un tempo, che forse agiva con modalità diverse da quelle richieste dalle policies odierne. Forse la sua visione sarebbe inattuale oggi. Ma rimane forte il dubbio che molte inconsistenze, incertezze e opacità della nostra cultura odierna siano strettamente legate a quella “inattualità”.