Le epidemie, così come ogni emergenza, hanno la capacità di svelare la natura autentica delle società che colpiscono. Lo ha scritto Anne Applebaum, giornalista della rivista «The Atlantic», che si trovava in una Bologna rarefatta nei primi giorni di marzo, in un editoriale che esaltava il servizio sanitario universale italiano. È una verità incontrovertibile: i momenti di forte stress non solo impongono un ripensamento delle consuetudini di vita e lavoro, ma ci obbligano anche a fare i conti con la sostenibilità dei modelli consolidati. D’altro canto, avvenimenti tanto imprevedibili finiscono per avere conseguenze nefaste proprio perché, esacerbando le fragilità (fisiche, sociali, economiche, psicologiche), rischiano di trasformare l’impreparazione, e anche la superficialità, in disastro. Ne avremmo fatto tutti volentieri a meno. Eppure, le avversità causate dal Coronavirus hanno dimostrato la scarsa abilità di prevedere i rischi e l’incapacità di gestire un evento che mette in quarantena ogni routine. Da fine febbraio, in maniera concitata, governo, autorità sanitarie e Regioni si sono trovati a fronteggiare un virus letale di cui ancora oggi si ignorano molti elementi. Mentre ogni retorica campanilista si sbriciolava al cospetto della nemesi delle «porte chiuse» per noialtri, le istituzioni italiane e i Paesi europei si sono confrontati in ordine sparso con una crisi sanitaria come poche. La reazione di molti governi ha brillato per lentezza e spensierata indifferenza rispetto ai ritmi di diffusione che il caso italiano segnalava. Pressoché tutti gli aspetti del nostro vivere (lavorare, studiare, viaggiare) sono stati catapultati in un limbo di incertezza da un evento esterno. Nel frattempo, tutti i comparti produttivi, come pure la pubblica amministrazione e le scuole di ogni ordine e grado, stanno attraversando una fase di shock. Sul piano sociale, l’emergenza ha acuito polarizzazioni preesistenti (tra luoghi, generazioni, classi, mestieri) con cui siamo chiamati a confrontarci fin da subito. La nostra analisi si sofferma su una dimensione specifica, quella del lavoro e quindi anche delle persone e delle imprese, che hanno subito i contraccolpi del dilagare del virus (divieti di circolazione, scuole e uffici chiusi, trasporti ridotti, incassi azzerati, distribuzione in tilt, strutture a mezzo servizio). Passeremo in rassegna gli sviluppi recenti, senza negare che il disagio di questi mesi abbia operato da lente di ingrandimento di vicende più profonde che interessano il mondo del lavoro in trasformazione e che meriterebbero la giusta attenzione anche in momenti sereni, proprio per evitare che riflessioni e azioni siano viziate da una logica emergenziale. Passata la fase di massimo allarme, occorrerà investire risorse ingenti per ridare spinta all’economia, già malconcia fin da prima dell’emergenza. Per rimarginare le ferite serviranno tempo e denaro. Tanto denaro e chissà quanto tempo. Tuttavia, l’Italia ha dimostrato tenacia in circostanze altrettanto gravi, e c’è da sperare che la storia si ripeta.

Lavoratori, famiglie e imprese hanno dovuto rivedere molte pratiche consolidate confidando nello sperimentalismo delle soluzioni talvolta improvvisate e accettando a fatica che non tutto potesse proseguire come business-as-usual. Il Nord Italia ha subito una frenata brusca e il suo rallentamento si è presto allargato a tutto il Paese. Molte imprese sono state riluttanti, da un lato, ad assecondare gli inviti a limitare gli spostamenti e la compresenza dei dipendenti, dall’altro, a comprendere le difficoltà indirette degli stessi lavoratori che, per esempio, si sono trovati ad accudire i figli in un momento di sospensione di tutti i servizi assistenziali e formativi. Di fronte all’epidemia, si sono comunque anteposti gli interessi della produzione a quelli della salute collettiva e dei lavoratori. Non si è nemmeno compreso che migrare verso forme di lavoro «da remoto» non avrebbe potuto garantire l’operatività ordinaria delle imprese, sia perché lavorare chiusi in una casa affollata non equivale ad avere una postazione di smart work «dedicata», sia perché i ritmi di vita sono comunque alterati: basti pensare alle lunghe code fuori dai supermercati. In alcuni casi eclatanti, si è dovuto ricorrere a scioperi e agitazioni per riportare tutti a più miti consigli.

 

[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 2/20, pp. 224-231, è acquistabile qui. Una versione abbreviata in inglese è disponibile qui