Domenica 12 giugno io andrò a votare i referendum sulla giustizia. Lo farò perché sono un cittadino che crede nella democrazia e nella Costituzione. Lo farò perché il referendum è uno straordinario strumento di partecipazione politica, che ci è stato dato dai costituenti perché avessimo a disposizione una seconda scheda, accanto al voto politico, per decidere.

Ciascuno di noi può stabilire in che modo essere cittadino. Libera è la scelta di partecipare o no. Dovremmo però essere d’accordo che organizzare in modo scientifico la diserzione delle urne, proprio nel caso del referendum, per il quale è previsto un quorum pari alla metà dei votanti, non è solo un modo per tradire l’essenza della democrazia come partecipazione attiva, ma anche per alterare i rapporti di forza tra i favorevoli all’abrogazione e i contrari. Basta rileggere il libro della storia: dal 1995 nessun referendum ha più raggiunto il quorum, salva l’unica eccezione dei quesiti su nucleare, legittimo impedimento e acqua pubblica votati nel 2011 (la soglia allora fu superata di un soffio grazie alla spinta emotiva suscitata dalla tragedia nucleare di Fukushima).

Fare appello alla diserzione del voto referendario permette a una minoranza di sfruttare l’astensione fisiologia (che supera il 30%) a proprio vantaggio per impedire che tutti gli altri cittadini democraticamente si contino. Anche stavolta chi è contrario ai quesiti sulla giustizia sta organizzando il dissenso invitando a disertare i seggi elettorali. Contro questa pratica antidemocratica e incostituzionale qualsiasi «buon cittadino» dovrebbe reagire dicendo «io non ci sto!» e andando a votare.

Disertare le urne è un modo per tradire l’essenza della democrazia come partecipazione attiva e per alterare i rapporti di forza tra i favorevoli all’abrogazione e i contrari

Andrò al seggio domenica non solo per difendere la salute del referendum e della democrazia contro chi li vuole sfibrare, ma anche perché la domanda sottesa ai cinque quesiti riguarda una vera e propria «emergenza». Nessuno può negare che esista nel Paese una «questione giustizia». È ridicolo banalizzarla dicendo che i quesiti sono «inutili» o addirittura «dannosi». Ancora una volta è la realtà che parla: la magistratura, anche lei, non gode più della fiducia della maggioranza degli italiani. Non è cosa da poco. Processi lunghi, inchieste e condanne anticipate sulla stampa, uso disinvolto della custodia cautelare, correntismo come metodo spartitorio di governo dentro il Consiglio superiore della magistratura (Csm) e per condizionare le carriere direttive, assenza di oggettività nelle valutazioni di professionalità, «porte girevoli» tra istituzioni politiche e magistratura, errori giudiziari senza responsabilità sono solo alcuni dei mali acclarati della nostra giustizia.

Lo «scandalo Palamara», che ha coinvolto molti componenti del Csm, nella divisione dei ruoli ai vertici della magistratura, denunciato con fermezza dal presidente Mattarella, è solo la punta di un iceberg. Nel 1986 il caso di Enzo Tortora divenne l’emblema della «malagiustizia». Da allora i radicali hanno fatto della «giustizia giusta» uno dei temi più ricorrenti delle proprie battaglie politiche nell’interesse dello «stato di diritto» e di tutti i cittadini. Allora la vittoria roboante dei referendum costrinse il Parlamento a intervenire, anche se la «legge Vassalli» sulla responsabilità civile si risolse in una foglia di fico, vista la sostanziale inefficacia dei rimedi da essa previsti. Fu certo un tradimento della volontà popolare, ma il referendum non fu vano, perché portò allo scoperto i limiti di un sistema giudiziario autoreferenziale dominato dalle correnti dei magistrati, rendendo ineludibile una riforma.

I quesiti che voteremo domenica 12 giugno fanno quel che possono, trattandosi di abrogare leggi e non di proporre riforme organiche. Toccano comunque temi cruciali.

Il referendum sul Csm vuole abrogare la norma che impone al magistrato candidato in quell’organo di farsi sostenere da un certo numero di sottoscrizioni (25-50 firme) o, detto altrimenti, di farsi appoggiare da una delle correnti della magistratura. L’obiettivo è ridurre il peso politico delle correnti e fare emergere la «qualità» dei magistrati a prescindere dall’appartenenza politica.

Quello sui consigli giudiziari, organi decentrati di autogoverno presso le corti d’appello, vuole consentire anche agli avvocati e ai professori universitari che li compongono di poter valutare i magistrati, cosa oggi loro vietata, perché consentita solo alla componente togata. Si vuole così superare un’ingiustificata discriminazione tra tutti i membri, anche in rapporto a quanto accade nel Csm, dove sui magistrati votano tanto i «togati» quanti i «laici».

Con l’abolizione delle norme che consentono il passaggio dalle funzioni giudicanti alle requirenti, il terzo quesito persegue l’obiettivo della separazione tra pubblico ministero (pm) e giudice. Non c’è nessuna volontà diretta a ridurre le garanzie di autonomia e indipendenza dei pm o, addirittura, volta a sottoporre l’ufficio della pubblica accusa al controllo del governo. Più semplicemente si vuole ridurre una vicinanza oggettiva tra due organi che svolgono nel processo funzioni opposte: il pm, con la polizia giudiziaria, conduce le indagini e sostiene l’accusa in giudizio fronteggiandosi alla difesa dell’indagato; il giudice, da una posizione di assoluta terzietà, deve decidere sulle misure restrittive della libertà personale e sull’accusa in caso di rinvio in giudizio. Il referendum, in questo caso, vuole affermare un principio costituzionale: quello di autonomia e indipendenza del giudice «dal» pm, garanzia essenziale affinché il giudice «appaia» (prima di dover essere) effettivamente terzo.

Il quarto quesito chiede l’abrogazione del «decreto Severino» che stabilisce la sanzione dell’incandidabilità e il divieto di ricoprire cariche elettive e di governo nei confronti di chi ha subito sentenze definitive o non definitive di condanna per delitti non colposi. La disciplina, pur perseguendo obiettivi legittimi per assicurare che i titolari di cariche pubbliche abbiano una specchiata fedina penale, è contraddittoria, perché collega l’incandidabilità anche a sentenze non definitive. Allora, chiedendone l’abrogazione, si tratta di affermare ancora una volta un principio costituzionale fondamentale, come quello della presunzione di innocenza fino a sentenza definitiva (art. 27.2 Cost.).

L’ultimo referendum si muove nella stessa direzione di allargare le garanzie a tutela della persona (art. 13 Cost.): si prevede l’abrogazione parziale della norma che consente l’adozione di misure cautelari restrittive della libertà personale (compresa la custodia cautelare in carcere) nel caso sussista il «concreto e attuale pericolo» di una «reiterazione del reato». Si tratta del motivo principale per cui i pm dispongono limiti alla libertà personale prima del processo e prima della sentenza definitiva. Misure consentite eccezionalmente dalla Costituzione, ma il cui uso deve essere soggetto a limiti e garanzie che non sempre vengono rispettati in concreto (come dimostra la cronaca giudiziaria). I critici ritengono l’esito troppo largo, ma restano escluse opportunamente dall’abrogazione le misure connesse ai più gravi reati, quelli «con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata», e anche il reato di stalking che giustamente allarma ma che rientra nella «violenza personale» (non toccata dal quesito).

La decisione da prendere su ognuno dei referendum sulla giustizia dipende anche dalla funzione che essi giocano nei confronti del legislatore. Il referendum, per la Costituzione, ha la funzione di indirizzare e controllare il Parlamento e il governo, riconnettendo il popolo ai suoi rappresentanti, specie quando l’inerzia di questi diventa un inadempimento irresponsabile. Com’è noto, questa legislatura, nonostante i tre governi che l’hanno scandita, è stata contrassegnata per il tentativo, finora non riuscito, di riformare la giustizia. In Parlamento sono state approvate le leggi-delega che dovranno modificare il processo penale e il processo civile, anche per intercettare le risorse del Recovery dell’Unione europea.

Il referendum indirizza e controlla il Parlamento e il governo, riconnettendo il popolo ai suoi rappresentanti, specie quando l’inerzia di questi diventa un inadempimento irresponsabile

Avremo tempo per apprezzarne le traiettorie. Langue, però, la più importante: la legge sull’elezione del Csm e sull’ordinamento giudiziario. Di fronte agli scandali e alla perdita di fiducia dei cittadini nella magistratura, il governo si è posto l’obiettivo di ridurre il potere delle correnti. Non sarà facile, viste le tenaci resistenze della magistratura associata. È molto probabile che senza l’iniziativa referendaria questa proposta non sarebbe arrivata in Parlamento.

L’associazione nazionale dei magistrati e alcuni nomi eccellenti delle procure hanno reagito mobilitandosi sia contro i referendum sia contro la riforma della giustizia, addirittura proclamando un clamoroso sciopero. La proposta di legge si muove solo in parte nel solco dei referendum: abolisce le sottoscrizioni per le candidature al Csm; ammette alla valutazione dei magistrati in casi molto limitati solo gli avvocati e non i professori; prevede un solo passaggio dalle funzioni requirenti alle giudicanti e viceversa; nulla dice in materia di incandidabilità e di misure cautelari. Solo nel primo caso, quindi, soddisfa pienamente la domanda referendaria; nei quesiti sui consigli giudiziari e sulla separazione delle funzioni, invece, opera solo interventi limitati senza realizzarne integralmente il verso.

Ora, è abbastanza evidente che se i referendum raggiungeranno lo scopo il Parlamento dovrà portare a effetto la volontà popolare, magari cogliendo l’occasione di incidere ancora più seriamente sulla «questione giustizia». L’eventuale vittoria dell’invito a disertare le urne, invece, non solo aggraverà la crisi del referendum come strumento di decisione democratica, ma renderà ancora più labili gli spazi parlamentari per una seria e necessaria riforma della magistratura.

 

[Sul tema l'autore ha appena pubblicato per il Mulino La Repubblica dei referendum. Una storia costituzionale e politica (1946-2022)]