Alla fine la flessibilità pensionistica è tornata nel vocabolario del sistema previdenziale italiano. Sarà una flessibilità ridotta, sia perché ristretta a coloro che sono nati tra il 1951 e il 1954, sia perché la sua presenza in futuro non è garantita oltre il prossimo anno solare. Sarà inoltre una flessibilità «a pagamento», perché lo strumento è un ibrido di interventi privati e pubblici, dove solo una parte residuale dei potenziali fruitori non dovrà fare ricorso al «mercato»» per poter usufruire del diritto di accedere al pensionamento in anticipo rispetto all’età legale (attualmente fissata per tutti a 66 anni e 7 mesi). Uno strumento nel quale, come purtroppo spesso è successo nei recenti interventi di politica economica dell’esecutivo, sembra contare di più il nome della sostanza.

A conferma di questo fatto sono le dimensioni finanziarie relativamente modeste del provvedimento. Si parla di un impegno annuale che non dovrebbe superare 700-800 milioni di euro.

In sintesi una misura che lascia aperti molti dubbi. La sua filosofia è nota, ma giova riprenderne gli aspetti essenziali. I lavoratori dipendenti e autonomi, in età compresa tra i 63 e i 66 anni e 7 mesi che abbiano maturato almeno 20 anni di contribuzione pensionistica potranno, a partire dal 2017, anticipare l’accesso al pensionamento di vecchiaia. Al fine di minimizzare l’impegno di cassa dell’Inps, il finanziamento della pensione fino al raggiungimento dell’età legale sarà reso possibile dall’intervento del settore bancario e di quello assicurativo. In sostanza chi deciderà di anticipare il pensionamento potrà farlo grazie all’apertura di un prestito pari all’importo delle rate di pensione anticipate, che il lavoratore, una volta diventato pensionato, restituirà con una parte della propria pensione nell’ambito di un piano di ammortamento di ventennale. Le assicurazioni si occuperanno di garantire – previo pagamento di un premio adeguato alle probabilità di premorienza da applicare a tutta la popolazione interessata – il pagamento del prestito di coloro che, dopo aver sottoscritto il prestito, non dovessero sopravvivere fino al ventesimo anno.

Vari esercizi numerici su individui tipo ci dicono che, per valori realistici dei parametri in campo, si parla di una rata di restituzione del debito che andrebbe a ridurre l’importo della pensione di chi decide di anticipare per un ammontare compreso tra il 5% e il 20%, a seconda della dimensione dell’anticipo e del tasso di interesse praticato dal settore bancario.

L’intervento dello Stato sarebbe «residuale». Esso si quantifica nell’impegno a finanziare questa operazione per i soggetti maggiormente in difficoltà, perché disoccupati, con bassi livelli di reddito oppure appartenenti a settori produttivi in difficoltà (in questo ultimo caso sarebbe prevista anche la partecipazione delle imprese).

Alcune domande sorgono immediate. Quali obiettivi si perseguono con questa politica? Era questo l’unico modo per realizzarli? Si potevano percorrere altre strade?

La flessibilità in uscita nel sistema pensionistico italiano è stata virtualmente presente tra il 1995 e il 2004 e solo per i pochissimi pensionati contributivi. Negli anni successivi, cancellata la norma che rendeva possibile la scelta del pensionamento tra i 57 e i 65 anni, i governi hanno reso sempre più stringenti i requisiti per la maturazione del diritto alla pensione, fino alla riforma Monti-Fornero che ha innalzato bruscamente l’età di pensionamento ed eliminato le pensioni di anzianità: un orientamento di policy molto dirigista e poco attento alla libertà di scelta, che invece costituisce uno degli elementi qualificanti del sistema pensionistico contributivo. Questa scelta di policy ha naturalmente avuto effetti importanti: l’età media di pensionamento è aumentata di più di due anni, il tasso di occupazione dei lavoratori con più di 55 anni è cresciuto e la spesa per pensioni è cresciuta meno velocemente. Accanto a questi effetti, positivi, ne sono emersi altri più problematici. Due per tutti: la questione degli «esodati» e la dinamica dell’occupazione giovanile. Nel primo caso un provvedimento di salvaguardia che interessava 65.000 lavoratori, intrappolati nel limbo tra lavoro e pensione dopo la riforma del 2011, si è trasformato – nella migliore tradizione del bizantinismo italiano – in una sequela di provvedimenti di dubbio valore perequativo e di sicuro costo finanziario per il bilancio pubblico. Nel secondo caso è emerso come l’irrigidimento delle condizioni in uscita, accoppiato con il perdurare della crisi economica, abbia comportato una riduzione delle possibilità di occupazione per i lavoratori più giovani.

Da qui dunque la richiesta di maggiore flessibilità, per ammorbidire un po’ le condizioni in entrata nel mercato del lavoro e porre la parola fine alla questione «esodati». Tuttavia anticipare l’uscita di qualche decina di migliaia di lavoratori ha un costo – in termini di cassa – sul bilancio pubblico, e in questa fase il governo ha deciso che dovranno essere i lavoratori a scegliere se farsi carico dei costi dell’anticipo. Solo a fine 2017 sapremo in quanti avranno intrapreso questa strada.

Si poteva fare diversamente? La risposta a questa domanda è certo affermativa. Un’operazione di anticipo dell’età di pensionamento si può realizzare senza che il bilancio dello Stato, nel lungo termine, ne risenta: affinché questo accada è necessario che la somma complessiva delle pensioni che un individuo riceve nel corso della sua vita non dipenda dall’età di pensionamento. In sostanza: se vai in pensione prima l’importo è più basso perché prendi la pensione per un numero maggiore di anni. Una riduzione compresa tra il 3% ed il 4% per ogni anno di anticipo è sufficiente ad assicurare questo risultato. Tuttavia, se nel lungo periodo le poste si compensano, è nel breve che i conti non tornano: anticipare il pagamento delle pensioni fa crescere subito la spesa, anche se il più basso importo della prestazione erogata, la ridurrà in futuro. Nell’austero mondo del fiscal compact però questi ragionamenti non sono ammessi e il governo, negli stretti vincoli del patto di stabilità, ha introdotto una misura dagli esiti incerti e dove i costi per il bilancio pubblico (compreso il dubbio aumento/estensione della quattordicesima mensilità pensionistica) sono stati concertati con rappresentanze sindacali più attente agli interessi di parte che a quelli generali.