Il couvre-feu francese. Da giovedì 22 ottobre sono oltre 40 milioni le persone che in Francia vivono in coprifuoco: 54 dipartimenti nei quali, dalle 21 alle 6, non si può uscire di casa. La misura, adottata inizialmente il 16 aprile, per  20 milioni di persone in Ile-de-France e in otto metropoli (Lille, Grenoble, Lyon, Aix-Marseille, Montpellier, Rouen, Toulouse e Saint-Etienne) è stata estesa giovedì 22 ottobre. Con un tasso di riproduzione di circa 1.35, i casi in Francia sono previsti raddoppiare tra 15 giorni, ha detto il Primo ministro, Jean Castex, quando ha annunciato l’estensione delle misure.

Il coprifuoco ha lo scopo di evitare nuovamente una saturazione degli ospedali: mentre scrivo sono oltre 40mila i nuovi contagi, per un totale di oltre un milioni di casi dall’inizio della pandemia. Si temeva un nuovo confinement, che Macron ha più volte escluso, anche se sono state sollevate diverse ipotesi, tra cui novembre-dicembre in lockdown per permettere alle famiglie di ritrovarsi per le festività.

Quando è arrivato il couvre-feu, il coprifuoco, l’effetto è stato un po’ un “boh”. Qualche alzata di spalle, qualcuno arrabbiato, qualcuno è sollevato. Tanti, preoccupati per il lavoro: chi ha un mestiere legato allo spettacolo, o all’organizzazione di eventi, chi è indipendente soprattutto.

Tanti si sentono in gabbia: si tratta di persone che vanno al lavoro, si espongono a un rischio quotidianamente, fanno il più attenzione possibile e si trovano bloccati nel tempo che stimano essere “loro”. C’è un sentimento diffuso di rassegnazione triste, di “normalità” nuova.

Tra gli amici, Hugo dice che «è la sola misura che il governo può attuare per evitare gli incontri di persone senza mascherina: non c’è altro che si possa fare»; Tristan la vede, non senza polemica, come la sola misura possibile, «necessaria per non uccidere l’economia». «Si tratta di una toppa, una pezza messa sul fatto che non si è investito in Sanità, trasporti, tecnologie di ventilazione per gli spazi… e il costo lo pagano i cittadini in controllo», aggiunge Renaud.

A tanti appare banale, banale come un dolore cronico, o come la pioggia, on fait avec: «Ci siamo già passati, non siamo più di fronte a qualcosa di sconosciuto», mi dice Cédric, che ha festeggiato i suoi 40 anni in videoconferenza a fine marzo.

Un po’, anche, perché siamo tutti nella stessa barca. Due settimane fa Pedro, già era confinato nel suo quartiere madrileno. Dal quale usciva ogni mattina per andare al lavoro. Nabeelah, che vive ad Amsterdam, è in “lockdown” parziale da quasi due settimane.

L’Europa (geografica) ha oltrepassato la soglia degli 8 milioni di casi, i morti sono oltre 250mila. Siamo tutti e tutte sulla stessa barca.

Oltre 2000 cluster di Covid sono identificati sul territorio della République francese. Santé Publique, il sito del governo che si occupa di diffondere i dati definisce “cluster” un luogo/zona «con almeno tre casi positivi confermati, su un periodo di sette giorni». Sempre dati di Sante-Publique France: circa il 55% di questi cluster (dati aggiornati al 5/10) sono in luoghi di lavoro, scuole/università e ospedali.

Il dato è estremamente interessante – alla luce del fatto che le scuole sono aperte, che il lavoro a distanza, per esempio, è stato fortemente consigliato, ma non imposto, e che i trasporti pubblici non hanno subito alcuna modifica – ma va detto che i cluster identificati rappresentano una parte minima dei contagi totali (max il 10%). La questione è che ancora non è possibile risalire, nella stragrande maggioranza dei casi, alla catena di contagio.

Altro aspetto che pesa in questo atteggiamento: la fiducia in questo governo è in caduta. In pieno inizio di pandemia, con i Paesi intorno in lockdown, il governo ha mantenuto le elezioni amministrative; durante la crisi si è detto che non le mascherine non servivano, che erano anzi “dannose”. La verità è che non c’erano. E che anzi, alcuni stock pubblici erano stati distrutti.

La percezione, a torto o a ragione, nelle persone intorno a me è che il coprifuoco sia inevitabile, un po’ un pro forma, al peggio una presa per i fondelli, o un modo per fare paura. Un parola, “couvre-feu” che smuove un vocabolario bellico che dal “siamo in guerra” di Macron fa percepire la misura come punitiva anche a coloro che applicano le norme, sono preoccupati e cercando di proteggere e proteggersi.

Per tanti va ben al di là: quello che non è comprensibile è perché è cambiato così poco rispetto alla prima ondata, perché si aspetta tanto per agire, perché non si sono potenziati gli ospedali… C’è una stanchezza generale, l’idea che sono i cittadini che pagano le conseguenze dell’incompetenza del governo in carica e di una crisi che il Paese vive già da diversi anni.

Un sondaggio realizzato da Ipsos (l’Istituto nazionale di statistica) racconta un Paese nel quale il 35% è favorevole a una misura di questo tipo (con annessi controlli di polizia e gendarmerie), un 41% contrario e un 24% che dice “boh”. La fiducia nel governo è scesa al 38% e, dato ancora più parlante, la fiducia nella comunità scientifica ha perso 15 punti percentuali rispetto a marzo.

Solo il 33% di coloro che hanno risposto al sondaggio pensa di rischiare il contagio se riprende una vita normale; il 28% degli intervistati considera le conseguenze del Coronavirus molto gravi: la metà del risultato che aveva ottenuto a maggio la stessa questione (56%).

Personalmente, e non paradossalmente in fondo, durante la vague di marzo un solo caso di Covid mi ha toccato, seppur lateralmente. Gilles, il padre di un’amica, è deceduto a 68 anni dopo due settimane in rianimazione. Nella mia cerchia nessun altro caso, nessun malato. Oggi tra i positivi il marito di un’amica, le sorelle di un amico, la famiglia di un altro, il collega di un’altra amica... Una grande differenza? Il numero di test, passati da 20mila a settimana a inizio giugno, al milione attuale.

Io, che sono tutt’altro che “macronista” ma che vivo ancora con la sindrome dell’italiana all’estero  –  vieni da un Paese dove poco funziona, fatto di episodi burocratici fantozziani, ingiustizie e malfunzionamenti kafkiani, tarallucci e vino in dessert  – sono un po’ persa, stupita nel vedere tanta approssimazione in un Paese dove, al contrario, ai miei occhi, le cose funzionavano.

Mai, in 14 anni di permanenza in Francia, ho sentito lodare l’Italia per qualcosa che non ha a che fare  – pregiudizio più o pregiudizio meno  –  con la cucina, l’accento, la musica o la cultura. Italia era sinonimo di cattiva gestione, disorganizzazione, corruzione, approssimazione: immagine alla quale 10 anni di Berlusconi hanno, certamente contribuito, ma che faceva parte di un immaginario ben radicato e più profondo.

Sentir parlare di “miracolo italiano” riferendosi gestione alla crisi sanitaria e come esempio a cui guardare, fa sorridere e con un po’ di compassione anche.