In occasione di un recente convegno milanese sulla condizione della donna nel mondo del lavoro il presidente dell’Inps Tito Boeri, commentando le cifre preoccupanti sulla disoccupazione che in Italia colpisce le donne con figli, ha avallato la proposta – già caldeggiata da tempo da più parti – di istituire un congedo di paternità obbligatorio di quindici giorni. Le ragioni per cui secondo Boeri il congedo obbligatorio aiuterebbe l’occupazione femminile sono due: da una parte l’esigenza di spezzare il circolo vizioso per cui gli uomini si trovano ad avere «maggior potere contrattuale nello stabilire chi deve lavorare e chi deve stare con i figli»; dall’altra il fatto che «i datori di lavoro considerano le donne con figli come un costo» e quindi tendono a discriminarle. A fronte dell’esigenza di dare una scossa allo status quo, Boeri ritiene che si possa fare ricorso anche a mezzi coercitivi per obbligare i padri a servirsi del congedo, infliggendo sanzioni ai recalcitranti. La notizia è subito rimbalzata sui media e sulle prime pagine di alcuni quotidiani, incontrando generale consenso e approvazione.

Qualche perplessità è stata espressa da Emma Bonino, che teme un’ingerenza indebita dello stato nella vita familiare. In realtà, si tratta di una preoccupazione infondata. Il congedo obbligatorio non conferisce allo Stato il potere di entrare nelle case degli italiani per controllare il loro ménage domestico; obbliga semplicemente gli uomini a non andare al lavoro per quindici giorni. Non è la libertà individuale la ragione per cui la proposta di Boeri dovrebbe lasciarci perplessi. Esistono altre ragioni, più fondate.

Se quello di cui ci preoccupiamo è la discriminazione che le neo-mamme subiscono nel mondo delle occupazioni retribuite, perché la maternità è invisa e costosa agli occhi del datore di lavoro, rendere invisa e costosa anche la paternità non può essere una buona soluzione. Che il congedo di paternità ottenga questo risultato non è una pura congettura. Persino nei civilissimi paesi nordici, ad esempio, fra i padri che scelgono di fare il massimo uso dei congedi parentali si registrano le stesse discriminazioni e penalizzazioni sul posto di lavoro di cui soffrono le donne che vanno in maternità. Nel gergo dei filosofi politici, questo risultato si chiama «livellamento verso il basso», ed è stigmatizzato come l’esito grottesco di una concezione errata dell’eguaglianza: fare stare tutti peggio, anziché tutti meglio. Con la differenza che in questo caso in realtà ovviamente il livellamento è solo parziale: a stare peggio sono solo i lavoratori che diventano genitori o intendono farlo, mentre chi non ha figli continua a godere di un relativo privilegio. Nel nostro Paese, queste forme di penalizzazione costituirebbero solo un incentivo in più (se ce ne fosse bisogno) a non fare figli. Se si vogliono evitare questi effetti, occorre rendere appetibili sul mercato dei lavoro coloro che hanno figli, anziché mettere i padri nella stessa situazione di svantaggio (relativo) in cui si trovano le madri. Se invece quello di cui ci preoccupiamo è la seconda ragione addotta da Boeri a favore del congedo di paternità obbligatorio, ossia la disparità di potere contrattuale all’interno della coppia, allora forse prima di tutto dovremmo cercare di capirne le cause.

Se guardiamo alle statistiche, scopriamo un fatto notevole: in realtà, in Italia ad essere estromesse dall’universo del lavoro non sono le donne che hanno figli, ma le donne che hanno figli e un basso livello di istruzione. Addirittura, per le donne laureate la nascita di un figlio costituisce un incentivo al lavoro extradomestico, e il tasso di occupazione si alza (dal 79,8 all’81%). La spiegazione è ovvia. Le donne con un basso livello di istruzione hanno anche generalmente un basso potere di generare reddito. In assenza di una rete adeguata di Welfare, per loro è più conveniente rimanere a casa piuttosto che guadagnare meno di quello che spenderebbero per ottenere servizi di cura per i figli. Al contrario, per le donne che sono in grado di generare redditi alti, anche se i servizi sono costosi alla nascita di un figlio conviene continuare a lavorare e addirittura investire nella carriera, per aumentare il proprio reddito. Per completare il quadro, vale la pena sottolineare che la percentuale di donne con livello di istruzione basso, in Italia, è molto più alta che negli altri Paesi europei che registrano percentuali virtuose di occupazione fra le donne con figli. Se queste sono le circostanze, è assai difficile che il congedo di paternità obbligatorio possa spostare il «potere contrattuale» delle donne che rimangono a casa.

C’è poi una terza ragione di perplessità sul congedo di paternità obbligatorio come rimedio alla sotto-occupazione femminile, ed è che questa proposta rimanda all’idea che la possibilità per le donne di conciliare maternità e lavoro dipenda dalla presenza di un uomo che «fa la sua parte». Si tratta di un’idea pericolosa non solo perché assume che la genitorialità femminile possa o debba esaurirsi completamente nell’orizzonte della coppia eterosessuale, ma anche perché implica che l’autonomia e l’affermazione delle donne passi comunque per una forma di dipendenza dagli uomini. In Italia questi effetti perversi hanno un peso ancora più grave che altrove, perché scontiamo l’esistenza di un sistema di Welfare che – soprattutto nella cura degli anziani e dei bambini – conta in misura eccessiva sulle risorse della famiglia tradizionale. Insistere sulla ripartizione della cura dei figli all’interno della coppia (eterosessuale) rinforza e legittima questo modello di Welfare «domestico», che dovrebbe essere invece messo in discussione, non solo perché inefficiente, ma anche e soprattutto per via dei suoi effetti perversi sull’autonomia e opportunità delle donne.

La ministra Lorenzin è stata oggetto di critiche feroci per la sua sciagurata campagna a favore della fertilità. Guardare alle ragioni mediche del calo di natalità, quando esistono cause strutturali ed economiche evidenti e vessatorie, è non solo ozioso, ma anche offensivo per gli interessati. Ma nel nostro Paese anche le campagne per il congedo di paternità come rimedio alla sottoccupazione femminile soffrono di una miopia simile. A fronte delle condizioni strutturali che condizionano la maternità delle lavoratrici a basso reddito e della grave inadeguatezza del nostro Welfare, perché concentrarsi sul ménage familiare delle coppie eterosessuali?