Un'abdicazione urgente. A distanza di una settimana, i motivi del gesto di Juan Carlos appaiono chiari, mentre ancora incerti sono gli sviluppi della situazione spagnola. La notizia è stata accolta nelle maggiori città da manifestazioni a favore della Repubblica. L’abdicazione era nell’aria, le manifestazioni, per quanto bandiere repubblicane abbiano progressivamente infiorato i cortei di protesta degli ultimi anni, impreviste. Per lo meno in queste dimensioni.

La rinuncia ad aspettare il compimento dei 40 anni di regno (che sarebbero caduti il 22 novembre 2015) dice di quanto la situazione sia stata percepita dal sovrano e dai suoi consiglieri come grave e la soluzione da adottare come urgente. Anche a non voler dar retta ai rumors su una grave malattia, le condizioni di salute devono aver avuto il loro peso in un uomo di 76 anni, che ha subito interventi chirurgici debilitanti e che, per gli standard di un Paese che ha costantemente rinnovato la propria classe politica dal ritorno della democrazia, è un anziano. Il processo per presunta corruzione, frode fiscale e per aver sviato denaro pubblico che coinvolge il genero Iñaki Urdangarin e l’infanta Cristina ha offuscato pesantemente l’immagine della Casa reale, come nessun’altra al riparo dalle incursioni dei media. La spensierata battuta di caccia in Botswana mentre la crisi economica minava pesantemente le condizioni di vita degli spagnoli ha fatto il resto.

Senza sottovalutare questi motivi, però, ben più determinanti sono state considerazioni di natura squisitamente politica. Le elezioni europee del 25 maggio hanno visto i due principali partiti, popolari e socialisti, restare per la prima volta al di sotto della soglia del 50% e, allo stesso tempo, l’affermazione di forze politiche apertamente filorepubblicane: dalle tradizionali, come Izquierda Unida, alle nuove, come Podemos, in parte espressione del movimento degli indignati. Un campanello d’allarme per le future elezioni politiche del novembre 2015 (dalle quali, abdicando ora, il sovrano ha voluto rimanere a prudenziale distanza), per quanto la legge elettorale spagnola premi i partiti maggiori uniformemente diffusi sul territorio dello Stato. Specie in considerazione della necessità, secondo quanto previsto dall’articolo 57, comma 5, della Costituzione, di regolare con legge organica la successione in caso di abdicazione. Si consideri la grave crisi che il governo catalano ha aperto indicendo per il prossimo 9 novembre un referendum per l’autodeterminazione. Una crisi che il governo Rajoy ha chiaramente mostrato di non saper gestire e che mette pesantemente in discussione l’assetto territoriale del Paese iberico uscito dalla Costituzione del 1978. Si aggiunga la crisi verticale del partito socialista e si avrà il quadro completo dei motivi che hanno spinto Juan Carlos a passare la corona sul capo del figlio, mettendo fine al proprio regno.

Un regno che ha segnato il periodo più prospero nella storia del Paese iberico in età contemporanea. Anni nei quali la Spagna ha dovuto sì fare i conti con il terrorismo dell’Eta, solo da poco definitivamente sconfitto, con cospirazioni e tentativi di colpo di Stato militari, con il terribile attentato della stazione di Atocha del marzo 2004 e con la grave crisi economica del 2008, dalla quale sta faticosamente riemergendo. Ma anche nei quali ha visto lo smantellamento di una dittatura tra le più dure e longeve del Vecchio continente, un profondo processo di decentramento politico-amministrativo, la costruzione di una solida democrazia accompagnata da una forte accelerazione di quel processo di modernizzazione iniziato già negli anni Sessanta.

Anni di prosperità anche per l’apporto di Juan Carlos che, posto sul trono da Franco (seguendo la linea ereditaria del ramo, la corona sarebbe spettata al padre, don Juan, che però, spazientitosi per l’interminabile attesa, era più volte sbottato, finendo per figurare agli occhi del dittatore come un pericoloso liberale), fu capace far approdare la nave nel porto della democrazia. Non che siano mancati dubbi sull’atteggiamento del sovrano, specie in occasione del golpe del 23 febbraio 1981, di cui il colonnello Tejero fu la parte (tele)visibile e il generale Armada l’anima occulta. E cioè che il sovrano fosse al corrente di quando si stava tramando e che lasciò fare per poi ottenere, non avallandolo, quella legittimazione democratica che mancava. Anche con questi dubbi il giudizio degli storici resta generalmente positivo sul suo regno. La fine del quale coincide con una crisi del sistema-Spagna (inteso come sistema dei partiti e come organizzazione territoriale dello Stato) così come era uscito dalla transizione.

Alla morte di Franco, Juan Carlos, optando per la democrazia, giocò l’unica carta a sua disposizione per difendere l’istituzione monarchica. Anche l’abdicazione del 2 giugno è stata determinata dalla necessità di mettere al primo posto la continuità della corona. Solo che questa volta a essere in discussione non è più la democrazia. E se le manifestazioni a favore della Repubblica non sono state un terremoto, sono senz’altro da prendere come scosse ammonitrici.