“Turista: termine con il quale i turisti designano con una sfumatura di disprezzo, talvolta di noia, altri turisti”. Questa fulminante battuta di Pierre Daninos, contenuta nel suo Vacanze a tutti i costi (1958), fissa in maniera incisiva quell’atteggiamento diffuso, quasi universale, per cui turisti sono sempre gli altri. Loro sono turisti, noi siamo viaggiatori, nonostante anche noi, come loro (cioè come i turisti), con l’andata prenotiamo già il ritorno, percorriamo le stesse rotte, alloggiamo nelle medesime strutture ricettive e non raggiungiamo alcunché di inesplorato. Del resto, esiste qualcosa di inesplorato nel mondo? O non è forse che tutta la superficie terrestre è stata battuta e geolocalizzata dall’homo sapiens, sicché il viaggiatore – il rampollo delle famiglie benestanti che faceva il Grand tour e che partiva verso luoghi mai percorsi da forestieri, come i protagonisti de Il tè nel deserto di Bernardo Bertolucci – è ormai un fossile consegnato alla storia degli spostamenti umani?

Eppure, come ben intuiva svariati decenni or sono Daninos, ogni turista è “turistofobico”: ha paura di trovare troppi turisti nella meta prescelta e, forse ancora di più, teme di essere scambiato per ciò che effettivamente è, ovvero un turista. Si tratta di una patologia per verità assai risalente: ne troviamo traccia in alcuni scritti di inizio 1800, quando a rigore ancora non si poteva parlare di turismo, se è vero che il turismo, inteso come spostamento temporaneo dal proprio luogo di residenza motivato da scopi di diletto, è un fenomeno relativamente recente della storia dell'umanità, che si realizza, a stare larghi, non prima della seconda metà del diciannovesimo secolo. Il fulcro delle lamentele di allora non era diverso dalle geremiadi contemporanee: i turisti sono dappertutto, sono troppi e – in un qualche senso non precisato fino in fondo – rovinano i luoghi.

Tuttavia, a ben vedere, qualcosa è cambiato. Per lunghissimo tempo quella del turista è stata una categoria sostanzialmente estetica, gravida di un’aura negativa che si rifletteva in espressioni quali “classe turistica” o “menù turistico”, ormai quasi del tutto cadute in disuso ma che sino a non molti anni fa servivano a descrivere realtà assai poco glamour e quindi da evitare (o almeno da dichiarare di evitare). Da circa un decennio è invece accaduto che il turismo è diventato un problema anche e prevalentemente etico: i nostri strali contro il turismo hanno alla base un’indignazione legata all’idea che vi sia qualcosa di sbagliato o di ingiusto nei robusti flussi turistici che imperversano nel mondo.

Che cosa è successo in questi decenni, all’incirca con gli anni Dieci di questo secolo, per cui il fastidio estetico si è tramutato in una preoccupazione morale? Che cosa ha fatto sì che il turismo sia diventato anche una questione etica, al quale dunque applicare le categorie del giusto e dello sbagliato? E che cosa significa oggi ragionare sul turismo in chiave etica, invocando e talvolta provando addirittura a sviluppare una vera e propria etica del turismo?

Che cosa ha fatto sì che il turismo sia diventato anche una questione etica, al quale dunque applicare le categorie del giusto e dello sbagliato?

Cominciamo con quest’ultima domanda. A grandi linee, e perlomeno in una delle sue possibili accezioni, l’etica (o la morale; consideriamole in questa sede come sinonimi) riguarda l’individuazione di ciò che va fatto e si traduce in regole per l’azione; in questo senso, da un lato l’etica riguarda tutti, poiché tutti siamo attori morali, dall’altro è anche una branca della filosofia e dunque una disciplina con un proprio metodo di lavoro e studiosi che si occupano professionalmente di offrire elaborazioni teoriche. Da questo punto di vista, l’etica del turismo è un ambito di riflessione che mira ad analizzare i problemi morali specifici del turismo e cerca di offrire linee di azione per quanti agiscono sullo scenario turistico.

Questi attori sono rappresentati da almeno tre categorie: ovviamente i turisti, cioè tutti coloro i quali fanno turismo, ma anche, e questo viene talvolta dimenticato, gli operatori turistici, vale a dire quanti offrono servizi sul mercato turistico, e le istituzioni pubbliche, alle quali è demandato il compito di governare il turismo attraverso regole giuridiche, incentivi economici e politiche di sviluppo. La costruzione di un’etica del turismo punta quindi a definire che cosa debba esser fatto da queste tre categorie di soggetti e nell’insieme costituisce un tentativo di congegnare un ecosistema turistico che sia rispettoso di una serie di vincoli morali in qualche modo individuati.

Concetti quali “turismo responsabile” e “turismo consapevole” servono a esprimere l’esigenza che questi vincoli vi siano; agire responsabilmente dal punto di vista turistico significa acquisire consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni ed essere disposti a modificare tali azioni se le conseguenze sono in un qualche senso negative. Naturalmente stabilire se e quanto siamo in presenza di conseguenze negative richiede qualche passo ulteriore, che ci porta a una maggiore precisione nella determinazione dei contenuti che l’etica del turismo dovrebbe possedere.

Per esempio, sono sbagliate quelle azioni che producono situazioni di insostenibilità, in termini di impatto ambientale, così come sul piano economico o sul piano sociale; e infatti, non casualmente, l’idea di turismo sostenibile è un’altra espressione che ritorna spesso nelle riflessioni di etica del turismo. Oppure potrebbero essere negative, e quindi eticamente sbagliate, quelle situazioni in cui il turismo crea grandi squilibri economici tra i diversi soggetti coinvolti (non dimentichiamo che molto turismo si svolge in Paesi in via di sviluppo) oppure si rivela irrispettoso delle persone (pensiamo agli zoo umani presso le popolazioni primitive ma anche ai selfie buffi ad Auschwitz).

Le questioni e gli esempi potrebbero essere moltiplicati ad libitum, ma non è questo evidentemente il luogo per provare a costruire una compiuta tassonomia che definisca un prontuario per esercitare turismo etico. Occorre però insistere su un punto messo in luce anche da Matteo Lupoli: una tassonomia siffatta, così come una compiuta teoria del turismo etico, non può limitarsi a una serie di prescrizioni per i soli turisti: non perché non serva (serve eccome!), quella che Alex Giuzio ha descritto come “una riflessione politica collettiva sulla necessità di ridurre i comportamenti individuali indotti dal turismo”, ma perché il fenomeno turistico è anche e soprattutto un’industria, con tutte le sfaccettature che un comparto industriale manifesta. Limitarsi quindi a investire i consumatori finali delle questioni etiche sarebbe come sostenere che i problemi etici, poniamo, dell’industria alimentare siano di pertinenza prevalente o addirittura esclusiva degli acquirenti dei suoi beni e non anche di chi fa parte della filiera produttiva e delle autorità che in vario modo regolano quel mercato.

Analogamente, e quasi per converso, sarebbe naif trascurare i risvolti economici del turismo. È lungo l’elenco dei luoghi che trovano nella leva turistica lo strumento per sottrarsi a un destino di povertà, degrado o abbandono; e per quanto basse possano essere le paghe dei lavoratori del settore turistico, soprattutto fuori dal mondo ricco, non possiamo dimenticare che l’alternativa concreta per queste persone non è paghe più alte, ma disoccupazione.

Quest’ultima considerazione ci riporta alla questione da cui siamo partiti: l’eccesso di turismo e l’indignazione morale che tale eccesso suscita. Oggi disponiamo di una parola che descrive l’eccesso di turismo ed è overtourism, o iper-turismo. A rigore, l’iper-turismo non è semplice eccesso di turismo, ma un fenomeno che possiamo considerare nuovo in ragione di tre caratteristiche distintive: l’iper-turismo risulta esorbitante dal punto di vista della quantità delle presenze, permanente sul piano dell’arco temporale in cui si verifica e trasformativo rispetto all’impatto che ha sui luoghi dove si afferma. E se è vero che l’iper-turismo è un problema anche per il turismo, poiché l’esperienza turistica stessa perde di valore per le difficoltà di sua realizzazione in condizioni di sovraffollamento, più spesso le fotografie impietose che documentano persone ammassate in piccoli borghi di mare, così come nei punti nevralgici delle città d’arte, o le code per salire sull’Everest, suscitano sentimenti di riprovazione e ci fanno pensare che stia accadendo qualcosa che non va.

Il turismo non è semplicemente un’industria, ma un’industria pesante e il suo sviluppo senza limiti è tutto tranne che a costo zero per il pianeta

Le preoccupazioni ambientali sono indubbiamente lo sfondo, o forse l’innesco, di questa presa di coscienza. È innegabile che il turismo, muovendo persone e risorse su e giù per il mondo, contribuisce pesantemente alle emissioni di anidride carbonica e dunque peggiora la già non rosea situazione climatica; e quando un numero sproporzionato di persone si concentra in uno stesso luogo, è evidente che quel luogo è sottoposto a uno stress ecologico importante e non si può fare affidamento sul fatto che la sua capacità di assorbire la pressione antropica sia infinita. Il turismo, in questo senso, non è semplicemente un’industria, ma un’industria pesante e il suo sviluppo senza limiti è tutto tranne che a costo zero per il pianeta.

Il turismo non è però problematico soltanto per gli effetti ambientali; lo è anche per gli effetti sociali. Rendere le città sempre più a misura di turista significa far sì che siano sempre meno adeguate alle necessità degli abitanti, che subiscono complicazioni importanti nella sua vita quotidiana senza magari trarre alcun beneficio dal turismo e anzi ricevendone a volte un danno. Emblematico di questa tendenza – che solitamente sintetizzo nello slogan “la priorità del visitare sull’abitare” – è il caso degli alloggi. La maggiore disponibilità di alloggi per affitti brevi, favorita dall’affermarsi di piattaforme che hanno favorito la disintermediazione nella locazione turistica, da un lato alimenta i flussi turistici nelle località più rinomate; dall’altro, sottrae alloggi al mercato residenziale, che è meno remunerativo di quello turistico, allontanando gli abitanti da quei luoghi.

Complici il calo demografico e lo spopolamento delle aree interne, non è fantascienza immaginare luoghi in cui prima o poi, da qualche parte, potrà verificarsi la completa sostituzione di una comunità (quella degli abitanti) con una non-comunità (quella dei turisti): infatti, la “comunità turistica” è un ossimoro, perché, nel vorticoso tourbillon degli arrivi e delle partenze, non si può creare alcun tipo di legame tra le persone; i turisti sono piuttosto, semplicemente, una somma di gruppi più o meno grandi di persone che si trovano a convivere per un breve periodo, in genere pochissimi giorni, a volte addirittura solo una giornata, nel medesimo spazio fisico.

Non è agevole comprendere quanto siamo prossimi alla trasformazione delle località in parchi a tema per turisti, anche se la sostituzione di negozi per gli abitanti con esercizi commerciali per i turisti, evidentissima in alcune località più rinomate, pare essere un segnale chiaro di questo processo di trasformazione. Nemmeno è semplice immaginare soluzioni efficaci per invertire nel caso la tendenza, se soltanto teniamo a mente che all’iper-turismo contribuiscono in larga misura i turisti giornalieri (gli escursionisti: in senso stretto, turista è chi pernotta fuori casa almeno una notte) e imboccare la strada del numero chiuso è una soluzione irta di difficoltà: innanzitutto perché si rischiano le discriminazioni di censo, con i (relativamente) pochi posti che salgono di prezzo e le municipalità che potrebbero essere interessate a monetizzare gli accessi con ticket piuttosto onerosi; ma poi anche perché il numero chiuso, giustificabile o meno che sia sul piano morale, è una misura applicabile solamente ove lo consenta la conformazione dei luoghi (Venezia laguna, per esempio).

Già sarebbe però un successo acquisire consapevolezza dei problemi etici, né più né meno della consapevolezza che si acquisisce rispetto alla presenza di una raffineria, di una siderurgia o di un gassificatore: industrie pesanti, che sono spesso viste dai residenti come il fumo negli occhi e che però possono avanzare, a sostegno della propria esistenza, la necessità per le persone di ciò che producono e le ricadute economiche positive sul territorio. Col turismo servirebbe un approccio analogo: il desiderio di visitare nuovi posti delle persone e il mercato turistico che si genera a partire da questo desiderio non possono essere le briscole della discussione morale, la quale invece richiede che vengano approfonditi gli effetti complessivi di questa dinamica e che si tenga conto di tutti gli interessi in gioco e non soltanto di chi ha dalla sua un maggior potere economico.