Domenica 11 giugno ore 11.30, San Antonio de los Baños (35 chilometri a Sud Ovest de L’Avana): un gruppo di cittadini convocati attraverso i social network iniziava a manifestare contro il governo cubano e il suo presidente, Miguel Díaz-Canel. «Abajo la dictadura» gridavano, libertad chiedevano. Da subito l’effetto domino ha fatto dilagare le proteste accendendo le strade di Santa Clara, di Santiago de Cuba, andando verso Pinar del Río e, poi, ancora nella capitale L’Avana. La risposta del governo non si è fatta attendere e si è mossa sui due fronti di sempre: il bastone e la dottrina. In questo caso, però, il secondo ha preannunciato il primo. Seguendo la solita liturgia castrista, il presidente ha delegittimato gli oppositori politici con i consueti epiteti stigmatizzanti: a protestare, infatti, erano i vendepatrias, i «manipolatori», i «provocatori» e i «mercenari» che, al soldo dell’imperialismo capitalista statunitense, si sono lasciati irretire dalla «strategia di sovversione ideologica», cercando di «fratturare l’unità tra partito, governo, Stato e popolo». E contro questi nemici della patria e, dunque, della rivoluzione, Díaz-Canel avrebbe «convocato tutti i rivoluzionari […] a difendere la rivoluzione a tutti i costi e in ogni angolo di strada». La consegna era stata chiara: i rivoluzionari cubani – «disposti a dare la vita» per il regime – sarebbero «stati presenti per le strade combattendo» contro coloro che volevano «affrontare la rivoluzione».

Seguendo la solita liturgia castrista, il presidente ha delegittimato gli oppositori politici, i vendepatrias, "manipolatori", "provocatori" e "mercenari" che si sono lasciati irretire dalla strategia di sovversione ideologica

La repressione, invece, è arrivata di lì a poco: manifestanti arrestati spesso da militari in abiti da civili; youtuber e influencer che avevano diffuso le immagini e i video delle proteste in tempo reale portati via dalle proprie case (il caso più eclatante è stato quello della giovane Dina Stars che è stata posta sotto la custodia della Guardia civíl mentre era in diretta su un’emittente spagnola, Canal Cuatro, nel pomeriggio di martedì 13 luglio); interruzione della fornitura di luce e internet nelle zone dove la protesta era stata più intensa. Una novità, quest’ultima, rispetto alle precedenti manifestazioni. Le contestazioni, iniziate domenica 11 giugno, infatti, si sono alimentate e hanno comunicato con tutto il mondo grazie ai social network e alle riprese amatoriali fatte dagli smartphone dei manifestanti. La mancanza di luce e di copertura del segnale telefonico, in altre parole, diventano ulteriori frecce nell’arco della repressione della libertà di espressione.

A fare da sottofondo alle proteste c’era la canzone Patría y vida, che dall’inizio dell’anno spopola su tutta l’isola. A ben vedere, sin dalla fine del 2018, la nascita di un movimento culturale di opposizione al regime, Movimento San Isidro, aveva riportato la questione della libertà d’espressione alla ribalta degli organi di informazione internazionali. Da allora sino a oggi, il Movimento San Isidro si è reso protagonista di differenti proteste: dalla pubblicazione di video di azioni della Polizia nazionale rivoluzionaria, a vari scioperi della fame, passando per la creazione di un Museo della dissidenza, una piattaforma virtuale nata per raccogliere le esperienze di opposizione al regime.

Le contestazioni che si sono sviluppate negli ultimi giorni a Cuba, però, non sono soltanto di natura culturale e politica, ma anche la conseguenza di un malessere generalizzato causato dalla mancanza dei generi primari e dei servizi basilari, che nell’isola si è acuita con lo scoppio della pandemia di Covid-19. L’assenza, poi, di statistiche credibili fa sì che vi sia una coltre di approssimazione e opacità che ricopre tutti i dati ufficiali. Il che rende impossibile un dialogo minimo con il potere politico. D’altronde, però, il regime castrista da sempre si è mosso con l’intenzione di redimere un popolo dal possibile peccato capitalista, renderlo immune al virus dell’imperialismo yankee, mettendo a tacere tutte le posizioni differenti.

Proprio per questa ragione, gli avvenimenti cubani poco hanno a che vedere con le dinamiche che sono sorte in altri Paesi dell’America Latina in questi mesi di pandemia. Nulla hanno in comune con quanto accaduto in Cile, dove la composizione dell’Assemblea costituente ha una maggioranza opposta a quella del governo del presidente Piñeira. Così come non c’è alcuna affinità con i risultati delle elezioni presidenziali in Perù dello scorso giugno, dove è stato eletto uno dei candidati più critici dell’attuale gestione. Tanto il caso cileno quanto quello peruviano altro non sono che forme di alternanza di governo o di equilibri istituzionali, tipiche delle democrazie.

Mentre in Cile e in Perù, vi sono canali politici e sociali per esprimere forme di opposizione legittima alla compagine governativa, a Cuba, in Nicaragua e in Venezuela non ve ne sono

Le vicende cubane, invece, hanno molte affinità con quanto accaduto in Nicaragua, dove Daniel Ortega (che detiene la presidenza dal 2007, dopo averla occupata durante tutti gli anni Ottanta del secolo scorso) ha fatto arrestare in meno di un mese venti oppositori, tra i quali tutti i principali candidati alle elezioni generali del prossimo novembre. Altrettanto similare è la vicenda di Freddy Guevara e Juan Guaidó in Venezuela. Il primo, ex deputato dell’opposizione al presidente Nicolás Maduro, è stato imprigionato dalle forze di polizia, il 12 luglio scorso. Quasi contemporaneamente il secondo, leader dell’opposizione a Maduro, veniva «momentaneamente sequestrato». Mentre in Cile e in Perù, vi sono canali politici e sociali per esprimere forme di opposizione legittima alla compagine governativa, a Cuba, in Nicaragua e in Venezuela non ve ne sono. Non è una novità per questi regimi, certo. Le nuove tecnologie, però, riescono ad aprire varchi di luce laddove la repressione illiberale vorrebbe che regnassero solo le tenebre.