Almeno due le lezioni che vengono dal terremoto che ha raso al suolo – ma ancora continua lo sciame sismico – città e paesi della Valnerina e di altre, vaste zone. Lezioni che speriamo non restino ancora una volta inascoltate.

La prima è l’aver rimesso all’attenzione del Paese – tragicamente, ma tant’è – la caratteristica che rende unico al mondo il nostro patrimonio storico e artistico: la sua onnipresenza sul territorio, il suo arricchire di cultura e di storia anche il più sperduto anfratto. Chi prima dei due terremoti avvenuti tra l’agosto e l’ottobre sapeva di luoghi come Accumoli, Ussita, Castelsantangelo, Acquasanta e così via? Eppure ognuno di quei paesi – qui, come nell’intera Italia – ha il suo centro storico con case e palazzi e chiese e una storia; basti che Preci, uno dei luoghi che oggi non ci sono più, è stata per secoli una delle patrie della chirurgia italiana; oppure che in sua frazione, Poggio di Croce, si conserva una bellissima Annunciazione dipinta alla fine del Trecento da Giovanni del Biondo. Ed è lezione, questa appena detta, che revoca una volta di più in dubbio l’aver soprattutto puntato il Mibact dell’ultimo governo sulla valorizzazione dei grandi musei nazionali, importanti certamente, ma solo per una parte minoritaria e nei fatti ininfluente circa la vocazione eminentemente ambientale di un patrimonio artistico, il nostro, che ha senso solo quando considerato come una totalità indivisibile dalla totalità dell’ambiente. Con le conseguenze sul piano conservativo facilmente immaginabili.

La seconda lezione consiste nella piana constatazione che la natura eminentemente territoriale del nostro patrimonio artistico ne fa derivare ogni forma di danno dall’ambiente in cui è contenuto: dalle variazioni microclimatiche all’interno di una chiesa, allo spopolamento dei luoghi (Valnerina docet), fino a inondazioni e frane o, ancor più, ai terremoti. Un dato conservativo finora però sfuggito ai più, sfuggendo loro anche quale sia l’unica soluzione possibile per poterlo affrontare: porre in atto razionali, coerenti e scientificamente fondate politiche di conservazione preventiva e programmata in rapporto all’ambiente, definite tramite una conoscenza puntuale dell’entità del patrimonio da conservare, quest’ultima premessa necessaria per ogni impresa scientifica che voglia darsi un destino, delimitando con la massima precisione l’universo che si vuole esplorare.

Politiche di conservazione preventiva e programmata in rapporto all’ambiente per la cui attuazione esiste già un modello definito in ogni sua parte in modo puntuale, quello messo a punto dall’Icr di Giovanni Urbani in varie stazioni dal 1973 al 1983. Per gli eventi sismici, il lavoro La protezione del patrimonio monumentale dal rischio sismico condotto nel 1983 sulla base della Carta della pericolosità sismica d’Italia elaborata dal Cnr all’interno del progetto finalizzato Geodinamica in cui erano indicate tutte le zone a rischio sismico del Paese; e qui siamo nel 1980. Un grande lavoro di ricerca condotto nei campi – tra loro indissolubilmente legati quando si voglia affrontare in modo razionale e coerente il problema dei terremoti – di geofisica, statistica e scienza delle costruzioni, mirando a trovare con questo progetto un quid medium su cui far ragionare gli addetti ai lavori, soprintendenti in primis. Ad esempio farli riflettere sull’efficacia dimostrata nei secoli dalle tecniche di consolidamento «visibile», quali catene di contenimento, fasciature metalliche di colonne e pilastri, muri di controscarpa o di sostruzione e altre ancora. Né per questo volendo bandire i sistemi di consolidamento derivati dalla tecnica del cemento armato, ma certo preoccupandosi di ridurre al minimo indispensabile gli interventi in palese contrasto con la logica delle strutture originarie, perciò sempre potenzialmente lesivi dell’integrità strutturale delle stesse.

Nessuno però tra soprintendenti e professori ha voluto seguire questa linea di lavoro, privando così il Paese della lunga serie di verifiche nel concreto che si potevano fare nei 33 anni che separano il 1983 (lavoro di Urbani) dall’oggi; oltretutto, verifiche condotte in una situazione normativa e in un panorama di rapporti tra Stato, enti locali, Regioni, privati proprietari e università assai meno complesso dell’attuale. Se a questo si aggiunge che soprintendenti e professori continuano ancora oggi a identificare – anche per i monumenti – la conservazione con il restauro e il restauro come un fatto tra storicismo e estetica crociani, bene si capisce la rampogna fatta loro da Urbani dicendo quel restauro «un’attività che al minimo dell’impegno tecnico unisce il massimo delle pretese estetiche». Dove il minimo dell’impegno tecnico trova nel restauro dei monumenti preclara dimostrazione nell’imposizione ex lege (1984/62 e D.m. ll.pp. 24 gennaio 1986) di applicare i cordoli in cemento alla sommità delle murature, cordoli esteticamente invisibili («il massimo delle pretese estetiche»), perciò applicati in un numero enorme di edifici, monumentali e non, fino al 2008 quando non si poté più tacere del fatto che i cordoli non sono presidi preventivi, bensì fattore di aggravamento dei danni. Ma anche quello stesso minimo impegno tecnico ha fatto sì che nel tempo si sia perso l’enorme sapienziario dei mestieri storici dell’edilizia, capomastri, muratori, carpentieri, stuccatori; e voglio vedere, quando ci dovesse trovare a davvero rifare «com’erano» le chiese i palazzi storici distrutti dal sisma, come si uscirà da questo problema. Con i prefabbricati in cemento antichizzati? Oppure chiamando architetti, muratori e maestri d’ascia dalla Francia, dove mai si è ceduto alla sirena ideologica dello storicismo?

Questo l’immenso ritardo culturale entro cui ci si sta avviando a porre in opera una politica di prevenzione dai danni ambientali del nostro patrimonio artistico. Una politica che tutti oggi sembrano voler fare e che si annuncia sarà operata «indiscriminatamente», che sarebbe poi quanto dire: in assenza d’una politica vera e propria, così come condotta in assenza di prassi di consolidamento preventivo sperimentate tra Stato, e università, né condivise, per quanto riguarda i semplici edifici abitativi, con enti locali, Regioni e privati proprietari. Quel che rende impossibile sapere in partenza, non solo quale sia l’efficacia degli interventi di prevenzione che si andranno a condurre, ma ancor prima i loro costi.

Anche perché, sia detto di passaggio, ancora oggi manca un catalogo del nostro patrimonio artistico, così che chi voglia farsi un’idea minimamente precisa della sua entità deve rifarsi alle gloriose Guide rosse del Touring.