Osservando il primo turno delle elezioni legislative francesi occorre sgomberare subito il campo da un possibile equivoco: per avere il quadro preciso di vincitori e vinti, è necessario ripassare domenica 19 giugno, in tarda serata. Parlare di verdetti definitivi sarebbe azzardato, considerato che un numero rilevante dei 572 scontri del II turno (otto dei quali triangolari) è incerto.

Detto questo, non mancano gli elementi di riflessione e il punto di partenza è quasi d’obbligo. Ancora una volta a dominare è il livello di astensionismo, imbarazzante per una democrazia matura e realizzata come quella francese. Dopo il picco toccato nel 2017, in questo primo turno è stato stabilito un nuovo record. Il 52,49% degli aventi diritto ha scelto di disertare le urne. In 56 dipartimenti della Francia metropolitana meno di un elettore su due si è espresso. In alcuni contesti sociali e in alcune fasce d’età (in particolare quelle giovanili), l’astensionismo è stato anche peggiore. Se si osserva la serie storica del voto legislativo, dal 1958 ad oggi, è evidente come il salto di qualità sia riscontrabile a partire dal 2002, quando l’astensionismo va sopra il 35%, per poi sfondare la quota del 40% al secondo turno del 2007 e passare il 50% al primo e secondo turno del 2017 (addirittura il 57%) e appunto al primo turno di domenica 12 giugno.

La riduzione del mandato da sette a cinque anni e l’inversione del calendario elettorale sembrano essere indiziati importanti per questa evoluzione, anche se non sono i soli. Da anni si rincorrono le proposte di riforma e di recente uno degli interventi più autorevoli è stato quello dello storico e noto commentatore di questioni politiche Jacques Julliard, che dalle colonne di “Marianne” e di “Le Figaro” ha proposto di abolire il primo ministro. In realtà la sua si presenta come una vera e propria riforma nella direzione di una presidenzializzazione formale del sistema (quella odierna in fondo è una presidenzializzazione materiale), con conseguente separazione dei poteri tra legislativo ed esecutivo, senza dunque una maggioranza parlamentare che sostiene il suo governo, ma con l’impossibilità per il “monarca repubblicano” di sciogliere l’Assemblea nazionale. All’indomani del voto legislativo, anche questo dovrebbe diventare uno dei cantieri del secondo mandato di Macron.

Dopo il picco toccato nel 2017, in questo primo turno è stato stabilito un nuovo record. Il 52,49% degli aventi diritto ha scelto di disertare le urne

Accanto alla patologica astensione, è impossibile non soffermarsi sul clamoroso risultato ottenuto dalla Nouvelle union populaire écologique et sociale guidata dall’ex socialista e oggi leader de La France Insoumise Jean-Luc Mélenchon. Il capolavoro è stato perlomeno doppio. Da una parte Mélenchon ha tramutato la possibile delusione per un ballottaggio mancato per quattrocentomila voti in una mobilitazione straordinaria della gauche francese. Dall’altra, proprio Mélenchon e alcuni fidatissimi collaboratori (tra cui l’onnipresente Manuel Bompard) hanno negoziato rapidamente un cartello elettorale in grado di presentare candidati in tutte le circoscrizioni. Una coalizione, occorre ricordarlo, a guida France Insoumise, dato che il rapporto era così strutturato: 260 candidati LFI, 100 ecologisti, 70 socialisti e 50 comunisti.

I numeri del primo turno sono già sorprendenti. Nell’Assemblea nazionale uscente, il gruppo LFI può contare su 17 deputati. Le proiezioni per domenica parlano di una coalizione Nupes tra i 150 e i 190 eletti. Ancora rispetto al 2017, al secondo turno erano passati solo 142 candidati di estrema sinistra, domenica prossima se ne conteranno 386. Infine, un ultimo dato che la dice lunga sul dominio LFI nella coalizione: cinque anni fa, in sole 35 circoscrizioni vi era un suo candidato in testa, quest’anno ciò accade in 191 circoscrizioni. Comunque vada domenica prossima, la France Insoumise sarà il primo partito di opposizione al macronismo e costituirà l’asse trainante della coalizione di sinistra come non accadeva da fine anni Sessanta, quando il nuovo socialismo francese avviò, con Mitterrand, la sua ascesa verso il primato a sinistra a scapito dei comunisti.

Comunque vada domenica prossima, la France Insoumise sarà il primo partito di opposizione al macronismo e costituirà l’asse trainante della coalizione di sinistra come non accadeva da fine anni Sessanta

Attenzione però ad accreditare la tendenza della nuova bipolarizzazione del sistema, lungo l’asse gauche/centro (Mélenchon vs Macron, per intendersi). Questo significherebbe semplificare eccessivamente il quadro e soprattutto trascurare il non disprezzabile risultato ottenuto da Marine Le Pen e dal suo Rassemblement national. Con un 18% su scala nazionale, ma soprattutto con 110 candidati in testa nelle circoscrizioni dopo il primo turno (nel 2017 erano solo 20), il Rn segna una discontinuità rispetto alle costanti difficoltà in appuntamenti elettorali che non siano l’elezione presidenziale. Le proiezioni in termini di eletti dicono tra i 20 e i 45 deputati, un risultato di tutto rispetto se si considera che nell’attuale Assemblea nazionale l’ex Fn non è riuscito a costituire un gruppo parlamentare autonomo (sono necessari 15 eletti). Infine, dato da non trascurare, l’affondamento del principale competitor all’estrema destra. Reconquête non ha nemmeno un candidato qualificato per il II turno, compreso lo stesso leader Eric Zemmour, eliminato nella quarta circoscrizione del dipartimento del Var.

L’altro elemento da non trascurare è che, contravvenendo alle previsioni più infauste e in controtendenza con il pessimo risultato di Valérie Pécresse, Les Républicains hanno, come dicono i francesi, “salvato la mobilia” (sauver les meubles). I cento eletti del 2017 sono una chimera, ma ciò che resta degli eredi del gollismo è accreditato di una forbice di eletti tra i 50 e gli 80. Una pattuglia di deputati che potrebbe diventare determinante in caso di maggioranza solo relativa per la coalizione Ensemble! (La République en Marche, centristi del Modem di Bayrou e nuovo partito dell’ex Primo ministro Edouard Phlippe, Horizons) o che comunque il presidente potrebbe utilizzare politicamente per attuare riforme piuttosto impopolari quali l’innalzamento dell’età pensionabile.

Occorre a questo punto centrare l’attenzione sulle forze della maggioranza presidenziale. Parlare di un primo voto sanzione nei confronti del presidente rieletto nemmeno due mesi fa può forse essere eccessivo. I dati del primo turno sono però piuttosto deludenti. La coalizione Ensemble! si ferma sotto il 26% su scala nazionale, un dato non così importante considerato il sistema elettorale maggioritario a doppio turno, ma comunque si è di fronte al peggior risultato di una forza di maggioranza presidenziale da quando è stato introdotto il quinquennato.

Altri numeri descrivono in maniera piuttosto univoca il pessimo risultato di quel “non partito” (in realtà mai voluto trasformare in qualcosa di simile dallo stesso Macron) che è la République en Marche. Nel 2017 i candidati della maggioranza presenti al secondo turno erano oltre 500, domenica saranno 419 e, di questi, metà si presentano in testa nella loro circoscrizione (nel 2017 erano 449 quelli in testa). Lo spettro all’orizzonte è il non raggiungimento della maggioranza assoluta. La stima degli eletti parla di una forchetta tra 255 e 295. La maggioranza assoluta è fissata a 289 eletti. A non convincere è stata la strategia del presidente in vista del primo turno, semplificabile nella decisione di astenersi dalla campagna elettorale. Nessun tema mobilitante, non un progetto chiave per il nuovo quinquennato (subito eliminata dal dibattito la controversa riforma pensionistica) e in generale scarsissima attenzione a delineare un quadro di sviluppo futuro. Il campanello d’allarme del primo turno ha forse destato il presidente, che però sembra proporre un terzo tempo della sua tattica di non così facile implementazione.

Al primo turno presidenziale Macron ha scommesso sul “prosciugare” il voto di centrodestra e la débâcle di Pécresse ha certificato il suo successo. Al ballottaggio ha giocato la carta del barrage républicain, lanciando più di un segnale almeno a una parte dell’elettorato di sinistra, e di Mélenchon in particolare. L’equazione scelta per il “terzo turno” legislativo (e in particolare per il secondo atto di domenica) appare molto complicata da sostenere. Da un lato Macron, il primo ministro Borne e i principali protagonisti della maggioranza presidenziale hanno alzato i toni nei confronti della Nupes, sino a porre l’alleanza guidata da LFI ai margini dello spazio “repubblicano”. Con quale coerenza è possibile accreditare la linea del “barrage républicain” a sinistra, dopo che questa formula è sempre stata soltanto utilizzata per opporsi all’estrema destra? E, più nello specifico, come potrà la coalizione presidenziale sostenere il candidato di sinistra negli scontri Nupes-Rn, se ha però accreditato l’immagine della Nupes come antirepubblicana?

Una via d’uscita per Macron può forse essere quella di tornare ad indossare i panni del chef de guerre (così determinanti nella prima fase di campagna per la sua rielezione) e non a caso nella settimana che porta al secondo turno di domenica sono previste le visite in Romania (al contingente francese) e in Moldavia (e forse anche a Kiev). Allo stesso modo si stanno moltiplicando i richiami ai temi dell’Ue e della Nato, particolarmente sensibili per i fragili equilibri interni alla Nouvelle union populaire écologique et sociale.

In definitiva dalle urne di domenica non solo uscirà la nuova Assemblea nazionale, ma sono attese interessanti indicazioni sull’evoluzione del sistema politico-istituzionale transalpino e sul futuro, se ve ne sarà uno, del macronismo sul piano interno così come su quello europeo, alla luce del conflitto ucraino ma anche delle recenti prese di posizione della Bce. Un “terzo turno”, come vengono chiamate le legislative dopo i due turni delle presidenziali, molto meno scontato del solito.