Una caratteristica che accomuna alcuni dei migliori comici italiani contemporanei è che molti di loro rifiutano di essere definititi così: comici. L’etichetta inglese a cui si ricorre per allargare il campo, stand-up comedian, non aiuta, perché è limitante parlare di comedian per artisti che sono anche tragedian e molto altro. Senza contare che la stand-up, intesa come monologo pronunciato da un palco, con o senza interazioni col pubblico, descrive solo una parte delle forme espressive che sono in gioco. Si sarebbe tentati di chiamarli performer, se non fosse anche questa una denominazione inadeguata, adesso troppo larga, perché metterebbe insieme Marina Abramović, che in genere non fa ridere, e Alessandro Gori, alias lo Sgargabonzi, che fa ridere spesso. Non sempre, però: prendiamo i versi finali di Letti, un poème en prose di Gori che è stato musicato da Avincola: «E sotto neon accecanti sognammo un’ultima volta / la beffa dei nostri genitori giovani, / dell’alba sull’Adriatico, / di un luna-park deserto / per noi e il nostro amore bambino». Ci sono struggimento e nostalgia, nessuna comicità. Al limite ci si commuove, non si ride. E allora che cosa fa di preciso Gori?

Per ingabbiare queste forme sfuggenti si parla talvolta (a sproposito) di anti-humor o di alternative comedy. Oppure si ricorre a qualche categoria passe-partout, evocando per esempio il surrealismo. In effetti l’aggettivo «surreale» si è appiccicato subito al nuovo programma di Valerio Lundini, Faccende complicate, disponibile su RaiPlay e descritto da «Repubblica» come un insieme di «surreali inchieste», mentre «Open» parla di una serie di «inchieste reali su realtà surreali». Per la breve sinossi di RaiPlay si tratta invece di «reportage realizzati in giro per l’Italia in cui [Lundini] affronta alcuni temi sociali di grande attualità»: niente più surrealismo, nessuna allusione alla comicità. Solo reportage.

Per la breve sinossi di RaiPlay si tratta di "reportage realizzati in giro per l’Italia": niente più surrealismo, nessuna allusione alla comicità. Solo reportage

Proviamo a capire meglio. Nella prima puntata della serie, Lundini incontra Francesco, un ragazzo che vive a Napoli e non riesce a trovare un appartamento in affitto. Gli ostacoli sono evidenti, perché Francesco è nero e omosessuale. Non proprio il massimo per trovare casa a Napoli: e qui scatta un pregiudizio di reazione, che crea un cortocircuito tra i preconcetti di cui è vittima Francesco e quelli associati ai meridionali. Con una telecamera nascosta seguiamo Francesco solo per verificare quanto possiamo aspettarci da quello che finora è in effetti un reportage a tema sociale. Quando vedono apparire Francesco, i proprietari di casa si fanno sospettosi e, dopo la visita, sollevano qualche problema, spiegando ad esempio che ci sono già trattative con altri aspiranti inquilini. Va da sé che, quando Lundini ripete le stesse visite fingendo di essere interessato, gli appartamenti tornano disponibili.

«Siamo nel 2024», sbotta allora Francesco, «eppure siamo rimasti al Medioevo». E anche i suoi amici, più tardi, ripetono la stessa cosa: l’Italia è un Paese retrogrado, anzi medievale. Colpito da questo dettaglio, Lundini decide di portare Francesco a una fiera a tema medievale per abbattere i suoi pregiudizi (!) a proposito di un’epoca storica dipinta come oscurantista. Nella seconda parte della puntata Lundini e Francesco fanno un’assurda passeggiata per la fiera, parlano con gli abitanti del borgo, si mettono in armatura e combattono. «Goditi il Medioevo», dice infine Lundini a un Francesco sempre più perplesso.

Un’altra puntata inizia al tavolo di un’osteria romana, dove l’oste presenta la propria carbonara dichiarando, con il tono di chi la sa lunga, che «è come ’a faceva tu’ nonna». Tornato a casa, Lundini telefona alla nonna per chiederle lumi sulla sua ricetta e per capire, soprattutto, come l’oste potesse conoscerla. Altra puntata, altro spunto: il segreto della bellezza secondo Sharon Stone è avere genitori belli. Per mettere alla prova questo assioma idiota Lundini fa un casting, seleziona due attori di bell’aspetto cui affida il ruolo di padre e madre, dopodiché vive con loro per una settimana, inscenando le dinamiche familiari di un adolescente. Basterà per diventare più bello?

Quello che agisce in molte delle puntate di Faccende complicate non è un dispositivo nuovo nella sperimentazione artistica di Lundini, che fin dai suoi esordi mette alla prova il linguaggio e i suoi automatismi

Quello che agisce in molte delle puntate di Faccende complicate non è un dispositivo nuovo nella sperimentazione artistica di Lundini, che fin dai suoi esordi mette alla prova il linguaggio e i suoi automatismi. Si trova ancora online un vecchio video dal titolo Disguido stradale drammatizzato. Inizia con una telefonata in cui il personaggio Lundini spiega alla madre di aver appena avuto un piccolo incidente. Il racconto è infarcito di quelle esagerazioni a cui tutti indugiamo. I fatti narrati sono inverosimili e i dialoghi non hanno senso («Me s’accosta uno, comincia a ffà: “Ehi tu! Qua, là, deh… Hai fatto, qua, co’ ’a machina, sè venuto…”»), perché nel riferire una disavventura o un conflitto siamo tutti, sempre, dalla parte della ragione. Sono gli altri a non saper guidare, gli altri a essere imbranati, stupidi, irragionevoli. Sarebbe doloroso dover ammettere il contrario. Quando la telefonata finisce il nastro si riavvolge di qualche minuto per mostrarci l’incidente, e la realtà, adesso, accade come Lundini l’ha effettivamente descritta, adeguandosi per assurdo alle parole del racconto. Quindi c’è davvero un personaggio che dopo un tamponamento dice parole sconnesse («Ehi tu! Qua, là, deh… Hai fatto, qua, co’ ’a machina, sè venuto»). I fatti si verificano letteralmente, uno a uno, come la lingua del narratore li ha falsificati.

Nella ripetizione del meccanismo si intravede quasi un elemento rituale. Viene in mente quel (come definirlo se non) rito in cui Alejandro Jodorowski decise di andare sempre, come si dice, «dritto per la sua strada» e attraversò la città montando sulle auto, scavalcando muri e salendo sui tetti delle case. Ma perché? O meglio: perché no?

Le gag di Lundini che ho appena riassunto si possono definire semplicemente comiche? O solo surreali? E si possono definire gag? Sono brevi narrazioni che fanno sorridere, forse, ma ci obbligano soprattutto a meditare sul modo sbagliato in cui dispieghiamo il linguaggio, dimenticandoci del suo potere. Alla fine rimane addosso una bava di disagio, perché scopriamo di essere tutti più o meno in malafede quando usiamo la parola per relazionarci con gli altri e con il mondo. Se abbiamo riso, abbiamo riso di noi stessi, sia perché impieghiamo una lingua ipocrita, sia perché ci facciamo abbindolare dalle ipocrisie altrui. Viene l’oste, presenta la carbonara «come ’a faceva tu’ nonna» e tutti ad annuire soddisfatti. Ma mia nonna, l’unica volta che ha fatto la carbonara, ci ha messo la panna.