Dove va la democrazia italiana? Non è questione di svolte a destra o a sinistra (ammesso che nella confusione attuale i due termini abbiano ancora un qualche significato), ma di qualcosa di assai più importante: stiamo perdendo le coordinate del costituzionalismo occidentale.

È vero che la consapevolezza di cosa significasse questo “regime” è sempre stata modesta (tanto che nella valutazione comune “regime politico” non indica in generale un sistema costituzionale, ma un abuso del sistema). È altrettanto vero, temo, che stiamo superando dei limiti pericolosi.

Prendiamo l’assoluto sconvolgimento che si è operato con l’interpretazione dell’esito dell’ultima tornata elettorale. Ormai sembra non si sappia più cosa significhi “rappresentanza”, cosa voglia dire “maggioranza” e quale conseguenza comporti l’esserne titolari, che significato vada attribuito alla dialettica Parlamento-governo.

Sul primo punto siamo ormai, da parte di tutti, alla teoria delle “fazioni”. Non pretendiamo che ci si ricordi del vecchio assioma della teoria liberale classica per cui chi vota non si lega al successo del suo candidato, ma concorre semplicemente a far funzionare il meccanismo per cui, quale che sia il risultato che esce dalle urne, ogni elettore è “vincente” in quanto ha contribuito a far vivere il sistema costituzionale. Comprendiamo che sia un concetto che cozza contro la normale psicologia dell’elettore medio.

I leader politici italiani, però, vogliono far passare la tesi per cui l’elettore non sceglie un “programma” e non è legato a esso se non fintanto voglia liberamente farlo; l’elettore si lega invece fideisticamente a una “persona” e alle sue vicende, quali che siano. Berlusconi è colui che più di tutti ha esasperato questa “faziosità” (si veda la gazzarra al tribunale di Milano), ma Grillo non scherza affatto e presto lo supererà. La sinistra si trattiene solo perché ancora imbevuta del mantra dell’“ortodossia”, che moltiplica i cani da guardia dei leader (peraltro in lizza tra di loro) e l’opera di delegittimazione da parte di costoro verso chiunque sia “altro” (ovviamente a meno che non lo si possa strumentalmente ridurre alla categoria, ben nota, del “compagno che sbaglia”).

È da questa incomprensione su cosa significhi “rappresentanza” che deriva il tormentone contro il voto segreto e il divieto del mandato imperativo (un tema che Grillo ha risuscitato, più che inventato, perché nel passato altre volte è stato agitato). Se l’appartenenza politica non è strumentale al raggiungimento di un obiettivo, ma è un atto di fedeltà partigiana, ovviamente tramonta qualsiasi ipotesi costituzionale del government by discussion.

Veniamo qui al delicatissimo problema di cosa significhi “maggioranza” in un sistema costituzionale. Se si crede, come mi pare si tenda a fare oggi un po’ da tutte le parti, che stiamo parlando di una questione puramente numerica, per cui chi riesce ad averla anche per il rotto della cuffia ha diritto a fare quel che vuole, mi spiace, ma stiamo scivolando nel totalitarismo. Vorrei ricordare, infatti, che storicamente il termine fu introdotto dal fascismo proprio con la teoria della pars pro toto: una parte che dovesse essere riconosciuta come preminente, vuoi perché numericamente superiore alle altre, vuoi perché rappresentante la parte “sana” del Paese (la maior et sanior pars di alcune teorizzazioni fra Medioevo ed età moderna), ha il diritto di avocare a sé la rappresentanza della totalità, escludendo le altre come insignificanti.

La tentazione, basta guardarsi intorno, alligna a destra come a sinistra. Naturalmente sommandosi con la teoria della fazione di cui ho detto, crea una miscela esplosiva, poiché ritenendosi ogni componente di un certo peso maior et sanior non può che pretendere per sé il potere totale. Del resto, per come si sono configurate le cose, se non agisse così la fazione perderebbe il consenso, perché appunto non si sta in una fazione senza che essa esprima una vocazione totalitaria.

E qui veniamo alla questione del rapporto Parlamento-governo. Ovvio che in questo campo da tempo se ne è andata la sistemazione del liberalismo classico: il Parlamento fa le leggi, il governo le applica, il Parlamento ne controlla l’applicazione. Dagli anni Ottanta del XIX secolo in poi, il governo non è più quello “del re” per cui è altra cosa rispetto al Parlamento, ma è semplicemente un pezzo del Parlamento, nascendo dalla volontà della sua maggioranza. In più, le leggi sono ormai per la maggior parte di iniziativa del governo e il controllo sulla loro esecuzione non appartiene che nominalmente alle Camere, perché in realtà l’unica istanza che può di norma censurare un governo è il corpo elettorale.

Ciò nella normalità, cioè quando le elezioni sono in grado di darci un governo e di farlo “seriamente”, cioè per radicamento nella volontà popolare e non per effetto delle furberie di più o meno improvvisati “ingegneri costituzionali”. Quando ciò, come adesso, non accade, siamo al corto circuito: non si può ritornare al “re” che nomina un “suo” governo, mentre le Camere di volta in volta lo approvano o lo mandano a casa, ma non si riesce neppure a far sì che il Parlamento esprima “dal suo senso” (cioè da una reale sintesi della “volontà popolare”) il tradizionale gabinetto di maggioranza.

Ricordare cose simili sembra un'astrazione da professorini. Peccato che basti guardarsi intorno per vedere quanto pesi la loro mancata presa in considerazione.