Il 26 aprile davanti al Parlamento europeo, riunito in sessione plenaria per discutere dei risultati dell’incontro fra i vertici delle istituzioni Ue e il presidente turco Erdogan, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha tenuto un grande discorso in difesa della parità di genere e contro ogni discriminazione, difendendo i valori fondanti dell’Unione europea. Durante il suo intervento, la presidente è tornata sulla profonda umiliazione da lei subita il 6 aprile scorso ad Ankara, quando le fu negata una sedia per sedersi, alla pari, accanto al presidente turco Erdogan e al presidente del Consiglio europeo, il belga Charles Michel. 

Da donna e da cittadina, ho ammirato la forza e la convinzione con cui la presidente von der Leyen ha ribadito la più ampia accezione del principio di non discriminazione, così come previsto dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue (art. 21). Tuttavia, come cittadina europea, sono rimasta un po’ perplessa. Mi aspettavo qualcosa di più sia dai lei, sia dagli altri attori coinvolti: il presidente Michel e i Parlamentari europei.

Oltre ad essere una donna la cui dignità è stata palesemente umiliata, von der Leyen è infatti la presidente della Commissione, cui i Trattati assegnano il compito di rappresentare ufficialmente l’Unione nelle relazioni con i Paesi terzi. Considerato questo suo ruolo, il SofaGate non può essere derubricato a una mera questione di protocollo o a un semplice sgarbo diplomatico, né può essere spiegato solo attraverso la lente della discriminazione di Genere. Il problema tocca aspetti di sostanza relativi alle relazioni istituzionali interne all’Unione: si è trattato di una grave offesa, inflitta a una rappresentante istituzionale dell’Ue, mentre l’altro esponente si limitava ad assistere senza fiatare, seduto sull’unica sedia messa a disposizione da Erdogan.

Ad Ankara si è evidenziato un problema istituzionale dovuto alla natura ibrida dell’Ue, che cammina su due gambe, rappresentate dalle istituzioni comunitarie (la Commissione, il Parlamento) e da quelle intergovernative (il Consiglio europeo e il Consiglio dell’Unione europea)Ad Ankara si è evidenziato un problema istituzionale dovuto alla natura ibrida dell’Ue, che cammina su due gambe, rappresentate dalle istituzioni comunitarie (la Commissione, il Parlamento) e da quelle intergovernative (il Consiglio europeo e il Consiglio dell’Unione europea). Le prime rappresentano il punto di vista comune europeo, le altre sono l’ultimo baluardo della sovranità nazionale, dove i singoli Stati difendo i loro reciproci egoismi conservando il diritto di veto e votando all’unanimità sulle materie più importanti. Nel lungo processo di integrazione europea, ormai settantennale, queste due diverse anime istituzionali sono state sempre in equilibrio precario e spesso in conflitto tra loro, dando come risultato un percorso accidentato e tortuoso verso forme più avanzate di unità.

A partire dal Trattato di Maastricht del 1993, c’è stata una tendenza a rafforzare il metodo intergovernativo. L’unione economica e monetaria non è stata completata dall’unione bancaria e fiscale e, nonostante la creazione della carica di Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (art. 18 TUE), non vi è stata una reale messa in comune di queste materie. Ciò ha condotto a un immobilismo istituzionale e a una progressiva incapacità di agire dell’Ue sulla scena interna e internazionale, generando tra i cittadini europei sfiducia e scetticismo, nonché rigurgiti di nuovi nazionalismi sovranisti.

Dal trattato di Maastricht (1993) sino a quello di Lisbona (2009), l’architettura istituzionale europea è andata complicandosi con l’istituzionalizzazione dello sdoppiamento tra il Consiglio europeo (riunioni al vertice dei capi di Stato e di Governo con poteri di indirizzo) e il Consiglio dell’Unione europea (formato dai ministri competenti degli Stati membri e dotato di poteri legislativi in co-decisione col Parlamento). Oltre alla nomina dell’Alto rappresentante per la politica estera, si è istituzionalizzata anche la carica del presidente del Consiglio europeo, che prima era una carica informale e temporanea, assunta semestralmente a turno dal capo di Stato o di governo che deteneva la presidenza del Consiglio (come accade ancora oggi per il Consiglio dell’Unione europea). Ora, invece, il presidente del Consiglio europeo è eletto a maggioranza qualificata dal Consiglio stesso e resta in carica per due anni e mezzo.

Sul piano della rappresentanza dell’Ue verso i Paesi Terzi, si è giunti così ad avere una conduzione almeno tricefala, quando non si consideri anche il presidente del Parlamento europeo e la presidenza a turno del Consiglio dell’Unione europea. A rappresentare l’Ue all’estero sono infatti: la presidenza della Commissione, per tutte le materie comunitarie (art. 17 par. 1 Tue) e la presidenza del Consiglio europeo, ma solo quando si tratta di politica estera e di sicurezza, fatte salve le attribuzioni assegnate dai Trattati dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (art. 15 par. 6 Tue). Nel caso in questione, a essere in gioco non è dunque un problema di protocollo, ma di attribuzione di specifiche competenze, sulla base dei Trattati.

Torniamo ora a ciò che è accaduto ad Ankara, avendo ben chiare in mente queste tensioni e complicazioni interne all’Ue. Nell’incontro col presidente turco, si dovevano trattare questioni rilevanti di pertinenza comunitaria: la cooperazione economica, l’Unione doganale con la Turchia in vigore dal 1995, il rinnovo degli accordi sui migranti del 2016, la politica dei visti, il rispetto dei diritti fondamentali e il ritorno della Turchia nella Convenzione di Istanbul sulla violenza contro le donne. Di conseguenza, secondo quanto previsto dai Trattati europei, avrebbe dovuto essere presente la presidente della Commissione von der Leyen o, al massimo, come si è fatto in casi precedenti, si poteva prevedere una rappresentanza paritetica dei due presidenti della Commissione e del Consiglio europeo, entrambi seduti ai lati di Erdogan, come fu in passato per Juncker e Tusk. Così però non è stato, come l’incidente del SofaGate ha mostrato.

Interpretando il suo ruolo in maniera estensiva, il presidente Michel non solo ha voluto essere presente all’incontro con Erdogan, ma ha cercato di avere un ruolo preminente sulla scena. Per scarsa vigilanza anche da parte del delegato ad Ankara dell’Ue (il tedesco Nikolaus Meyer-Landrut), è così potuto accadere che, in queste aporie istituzionali dell’Ue, si sia inserito il presidente turco Erdogan, sicuramente più interessato a trattare con un rappresentante degli Stati nazionali, come è di fatto Michel, piuttosto che con la rappresentanza comunitaria dell’Ue. Come ha, infatti, osservato Andrea Bonanni su «Repubblica»: «Il sogno degli autocrati è poter negoziare con i singoli leader nazionali, dalla Merkel a Macron, facendo finta di ignorare che esista una realtà politica chiamata Europa, i cui valori, in contrasto con i loro, sono incarnati dalle istituzioni comuni, come appunto la Commissione».

Non si tratta, dunque, solo di maschilismo, ma di un atto di protervia da parte dell’autocrate turco, che ha deciso lui con chi trattare e come rapportarsi all’Ue. Erdogan ha però trovato una sponda nel comportamento di Charles Michel, intenzionato a riservare al Consiglio europeo – anche in contrasto coi Trattati – questioni rilevanti e di pertinenza comunitaria. Poiché tra gli argomenti in discussione era anche il rinnovo dei finanziamenti Ue alla Turchia per la gestione dei profughi siriani, è apparso evidente il tentativo di trasformare tale negoziato – che implica l’accordo anche da parte del Parlamento europeo – in una trattativa avocata alla sola presidenza del Consiglio europeo come se fosse materia di politica estera, così da mantenerla sul piano inter-governativo, cioè sotto il controllo degli Stati membri, anziché delegarla alle istanze comunitarie. Eppure, il trattato di Lisbona già prevede una responsabilità dell’Ue in materia di gestione integrata delle frontiere (art. 77 Tue), di politica comune d’asilo (art. 78), di politica delle migrazioni (art. 79) e di condivisione dei relativi oneri, non solo finanziari, tra tutti i paesi membri (art. 80).

Detto solo per inciso – la questione merita, infatti, un approfondimento a sé stante – tali competenze imporrebbero un’iniziativa più decisa e coordinata da parte di tutte le istituzioni europee, a correzione della dissennata esternalizzazione della gestione dei profughi affidata al governo autoritario di Erdogan. Spiace invece che, anche nel discorso del 26 aprile, la presidente von der Leyen abbia applaudito agli sforzi della Turchia per la gestione dei rifugiati e abbia affermato l’intenzione di dare «denaro fresco» per rinnovare gli accordi esistenti, pur ribadendo la richiesta del rispetto dei diritti umani da parte del governo turco.

Come si vede, guardando più a fondo, l’incidente del SofaGate, oltre alla questione di genere, ne contiene molte altre, parimenti rilevanti. Resta per me un mistero perché la presidente von der Leyen, almeno pubblicamente, non abbia voluto far cenno anche ai nodi istituzionali (sebbene una certa insofferenza traspaia tra le righe del suo discorso). Ancor di più appare incomprensibile che i (pochi) Parlamentari europei presenti alla plenaria del 26 aprile non abbiano maggiormente incalzato il presidente Michel, chiedendogli conto del suo comportamento ad Ankara, non solo sul piano della parità di genere, ma anche su quello del rispetto dei ruoli istituzionali previsti dai Trattati. Da parte sua, Charles Michel si è limitato a ribadire di essersi accomodato sull’unica sedia disponibile per non aggravare un imbarazzante incidente diplomatico con la Turchia: un incidente che, a ben vedere, egli stesso avrebbe invece contribuito a creare.

Che lezione trarre da questa vicenda così spiacevole sul piano del funzionamento istituzionale dell’UE? Per evitare che simili incresciose situazioni si ripetano, non basta, come è stato suggerito, che le due cariche istituzionali si accordino prima di partire per un incarico di rappresentanza all’estero così da poter parlare con una voce unica e decisa a nome dell’Ue. Certo, siamo convinti che la presidente von der Leyen non si farà più prendere alla sprovvista e pretenderà che i rapporti istituzionali si attengano al rigoroso rispetto dei Trattati vigenti. Tuttavia, il vero problema che il SofaGate ha evidenziato è proprio un disaccordo sulla definizione dei rispettivi ruoli istituzionali e del carattere stesso dell’Ue: intergovernativo e confederale oppure comunitario e tendenzialmente federale?Il vero problema che il SofaGate ha evidenziato è proprio un disaccordo sulla definizione dei rispettivi ruoli istituzionali e del carattere stesso dell’Ue: intergovernativo e confederale oppure comunitario e tendenzialmente federale?Per sciogliere questo nodo gordiano bisognerebbe che noi europei decidessimo, dopo 70 anni, quale Europa intendiamo lasciare alle generazioni future Se vogliamo completare in modo armonico la nostra casa comune, occorre correggere la zoppia e rafforzare la gamba comunitaria. In tal senso, una possibile proposta potrebbe essere quella di unificare nella carica della presidenza della Commissione anche la presidenza del Consiglio europeo, così come avviene per l’Alto rappresentante per la politica estera che siede nel Consiglio ed è anche vice-presidente della Commissione. Come ha osservato Antonio Longo su Eurobull il 15 aprile scorso, non ci sarebbe bisogno neppure di modificare i Trattati (che si limitano ad affermare che il Presidente del Consiglio europeo non deve avere un mandato nazionale) e si porrebbe così fine a un conflitto inter-istituzionale, rafforzando il ruolo di governo della Commissione e dando «all’Unione un volto e un numero di telefono da chiamare, per dirla alla Kissinger».

Non è certo questa l’unica riforma necessaria per razionalizzare la complessa struttura dell’Ue. La speranza è che di questo si parli all’interno della Conferenza sul futuro dell’Ue, che è stata lanciata il 9 maggio, mentre è già attiva una piattaforma digitale in cui i cittadini e gli organismi della società civile possono partecipare immettendo proposte. Le resistenze nazionali dei sovranisti di ogni colore sono però attive da tempo e hanno già messo le mani avanti contro ogni ipotesi di seria riforma istituzionale che vada nella direzione di una più compiuta unità politica sovranazionale. Se queste resistenze vinceranno, il SofaGate sarà stato solo la prima spia di un crescente conflitto inter-istituzionale che, prima o poi, bisognerà decidersi a scogliere, anche solo all’interno di una piccola avanguardia di Paesi più volenterosi.