Carlo Cunegato scrive in questi giorni in un suo post: "Cosa è successo ad Asiago? [Poco tempo fa] due manifestazioni partecipate da migliaia di persone contro la chiusura dei reparti dell’ospedale. Come è noto, o dovrebbe, la sanità è gestita dalla regione, quindi da Zaia. Ecco, ad Asiago Zaia prende l’83,88%, a Gallio, dove qualche giorno fa una donna ha partorito in casa, arriviamo addirittura al 89,4%".

Come non partire da osservazioni come questa per capire la faglia storica a cui stiamo assistendo? Le cronache elettorali di questi giorni ci segnalano infatti un'ulteriore avanzata del "culto della personalità" in Veneto che non possiamo continuare a leggere con i soliti occhiali della richiesta politica, perché c'è qualcosa di più profondo e radicale in questi dati.

Intanto, diciamocelo chiaramente, non c'è alcuna "Linea Maginot" a sancire un tratto di separazione geografica tra un "noi" e un "loro", togliamo questo falso dall'immaginario, appartiene ormai a una cartina superata. L'evoluzione della situazione politica nella provincia di Venezia e l'intensificazione del voto ai capi populisti è progressiva, senza argine alcuno, e dura ormai da alcuni decenni. Quando Gentilini, il primo sindaco "sceriffo" del Nord Est, nel lontano 1996 si affermò per la prima volta a Treviso, il resto della Regione ancora ironizzava su queste personalità esuberanti e sui trevigiani che lo difendevano. Ma da allora il quadro politico è completamente mutato, in tutta la regione quella modalità esprime ormai decine di primi cittadini e Venezia non è da meno. Anche nei quartieri popolari della nostra città, nelle sue periferie prossime e in quelle interne, in quelle che un tempo erano chiamate le isole "rosse" del Veneto, come Mira o Marghera, nei rioni dal voto comunista della città insulare di Venezia come Sacca Fisola, le Zitelle, Cannaregio o Castello, assistiamo a un'evidente riconferma di leader indiscussi. Perché oggettivamente dietro a questo affermarsi plebiscitario di Zaia in Regione o di Brugnaro in Comune ci stanno delle moltitudini che cercano un condottiero. Volgare che sia, padrone che sia, oligarca che sia, incoerente che sia, ne manifestano un estremo bisogno, per risolversi. Possiamo continuare a raccontarci che "abbiamo perso" perché il menu politico non offriva nulla di meglio che un notabile democristiano, ma banalmente non è vero, anzi non è più sufficiente. L'offerta elettorale (tanto quanto quella politica in generale) non è mai mancata in questa città e nell'intera regione che la circonda, e il proliferare di liste capitanate da capipopolo più o meno esotici, è solo lo specchio fedelissimo di tutte le istanze sociali possibili e pure di quelle fantastiche. Dobbiamo invece iniziare ad accettare ciò che balza evidente agli occhi quanto bruciante ad ogni coscienza democratica: questa tensione al plebiscito, questo estremo "bisogno" di un leader monocratico. Vogliono che sia un maschio dell'assertività fanatica, qualcuno che non debba render conto delle sue scelte non solo ad un consiglio o a un partito, ma nemmeno a un suo numero due; cercano qualcuno che "faccia bene" e che se necessario metta alla gogna nella pubblica piazza chi lo rallenta. Perché questa è la condotta usuale di questi capi populisti. Come volete chiamarla? Voglia di fascismo? È presto per dirlo, ma è di certo una propensione al totalitarismo.

Nel suo La mentalità totalitaria David Bidussa lo definisce "un immaginario di desiderabilità dell'ordinamento sociale fortemente controllato, caratterizzato da aggressività e caricato di vittimismo persecutorio" e lo lascio intonso alle sue parole.

Questa faglia pre-politica ha conquistato il Paese partendo dalle sue periferie e non ha affatto concluso il suo ciclo, anzi. Ha dapprima espugnato il lombardoveneto lasciando fuori le grandi città operaie, poi ne ha investito le periferie e ora infine ne penetra i centri partendo proprio dai quartieri popolari, dai luoghi in cui era più radicato il voto progressista. Non abbiamo "perso" Venezia a un centrosinistra smorto – usciamo per cortesia da questi ombelichi campanilistici e di partigianeria spicciola – né siamo gli ultimi assediati in un fortino di benpensanti rosicato dall'interno, è piuttosto rifiorita in tutto il pianeta, innescata dall'attuale e profondissima crisi di sistema, una "mentalità totalitaria" dalle infinite declinazioni locali. E tornando così al nostro particolare: nelle zone culturalmente depresse il voto per Zaia ha raggiunto il 92%. Riusciamo a leggere questo numero senza brividi? Senza il dubbio che esprima qualcosa di più profondo che una banale vittoria elettorale? E conseguentemente, e con onestà, riusciamo veramente a sentire l'aria che tira nei nostri quartieri popolari? Quando i ragazzi parlano di politica lontano dalla presenza di un "chiacchierone" di sinistra che li intimidisce con la sua retorica ed aria da maestrino? Quando quelle signore tirano su in braccio il cagnolino davanti al discount e iniziano a sbobinare il loro quotidiano politico? Perché questo ordinario esprime esattamente quella tensione, soprattutto quando il racconto avviene fuori dal confronto con chi ha la fama di non lisciare il pelo al senso comune. La scelta di questi "capi" nei comizi di strada non è solo fatta, ma è fatta allontanando gli altri concorrenti con i semplici gesti di una mano che spolvera nell'aria. Questa tensione pre-politica si incarna così infallibilmente in un tiranno, in un capo tribù, si materializza attraverso pensieri che non si possono contrastare con argomenti razionali, né con un banale "do ut des", è una "forma mentis" capace di vittimismo e aggressività al tempo stesso, che cerca in una figura sintetica la soluzione ai molti aspetti del proprio multiforme caos irrisolto. L'irrazionale domina le scene, determinando un’opinione dove la protesta per la chiusura dell'ospedale convive ed anzi alimenta la riconferma del decisore politico che questa chiusura ha voluto, senza che le due cose entrino in contraddizione, anzi, dove l'incertezza che deriva dalla prima consolida la necessità della seconda.

I totalitaristi ci passano accanto mentre noi siamo al bar, perennemente ci sfuggiamo a vicenda. Viviamo su piani paralleli raramente intersecanti, e solo quando ritroviamo quel vecchio compagno di scuola sentiamo veramente cosa bolle nella pancia di questo mondo così prossimo e remoto. Per il resto ci sfioriamo e basta. E oggi, anche qui, anzi ovunque in Veneto, quella temperie è molto di più di una maggioranza assoluta, è un caos che alza la sua voce confusa. Non è una classe composta da poveri o emarginati, da soli sfruttati o sfruttatori, di arricchiti o retrocessi nella scala sociale; esprime piuttosto un'ampia zona di smarrimento del sé nella confusione del contemporaneo, un luogo politico che traccia la via d'uscita dal caos in una delega totale, biopolitica, ad un leader. Tutti gli ambiti biopolitici ne escono completamente colonizzabili e lo stesso discorso sul virus, irrisolto e bipolare, ne diviene così amplificatore e potente cavallo di troia mentale. Quello che è successo domenica 20 e lunedì 21 settembre non può più essere letto con la focale corta delle amministrazioni. Quel 92%, quel 76%, quel 54% sono segnali di una mentalità ormai innestata nel tessuto sociale. Questa mentalità potrà certo cercare altri interpreti, magari anche di colore politico opposto (pensiamo a De Luca in Campania), ma li cercherà ormai nel medesimo terreno paludoso, lungo quella dorsale inaccettabile, precostituzionale, totalitaria.

Dovremo perciò ripartire dai fondamentali, da quei luoghi di formazione e tenuta che Gramsci chiamava con gergo militaresco "le casematte", in ritrovati luoghi di popolo, facendo spazio nei quartieri al pensiero razionale, per quanto riduttivo questo programma di minima possa sembrare. Perché ritrovarci piuttosto in circoli dalle litanie auto rassicuranti non serve più a nulla, se mai è servito a qualcosa. Dobbiamo riconquistare il discorso pubblico con chiavi utili a dipanarne il caos, a ricomporre questa separatezza, a prepararsi al lungo periodo. E si, dobbiamo anche studiare il vecchio ciclo dei totalitarismi in cui siamo nuovamente immersi per l'ennesimo ricorso della storia.