Purtroppo, è ormai pacifico considerare l’Ungheria un’autocrazia elettorale, definizione usata anche in un’importante risoluzione votata a grande maggioranza dal Parlamento europeo nel settembre del 2022. Dopo il ritorno al potere di Viktor Orbán nel 2010, il sistema democratico è stato preso a picconate a Budapest: fine della separazione dei poteri e del pluralismo informativo, occupazione manu militari delle istituzioni formalmente indipendenti, modifiche della legge elettorale per favorire il partito al governo, limitazione dei diritti delle minoranze e un lungo eccetera. I ripetuti successi elettorali del leader di Fidesz – l’ultimo nell’aprile dello scorso anno – lasciano ben poche speranze per una prossima svolta pro-democratica.

Essendo realisti, dovremo convivere ancora a lungo con un regime autocratico nel cuore dell’Unione europea, vista l’incapacità delle istituzioni comunitarie, nonostante i timidi ma importanti passi in avanti dell’ultimo biennio, di far rispettare lo Stato di diritto in un Paese membro. In realtà, ci stiamo già convivendo da oltre una dozzina d’anni, senza che i più si straccino le vesti. Anche perché l’Ungheria ha un peso relativo nel consesso europeo con i suoi 9,7 milioni di abitanti e Orbán, dacché Fidesz è stata espulsa dal Partito Popolare, è diventato un paria. Giudizio rafforzato a causa dei suoi legami con Pechino e Mosca che, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, hanno comportato in pratica la rottura del gruppo di Visegrad. Insomma, la sua capacità di incidenza è estremamente limitata: per quanto doloroso e vergognoso, il progetto ungherese non mette (almeno per ora) in ginocchio l’Ue, se non eticamente.

Detto ciò, e al di là del vero e proprio dramma rappresentato in sé da quel che succede nel Paese magiaro, il problema principale è che l’Ungheria non è un’eccezione. Non solo è diventata un case study per gli aspiranti autocrati di tutte le latitudini, America Latina compresa, ma se ci spostiamo un po’ più a Nord ci rendiamo conto che il modello ungherese è stato applicato per filo e per segno in un Paese il cui peso è ben maggiore negli equilibri europei. Con la vittoria elettorale di Diritto e Giustizia (PiS) nel 2015, la Polonia ha seguito passo passo le orme di Orbán. Per farci un’idea, secondo l’indice elaborato dal V-Dem Institute, che misura la salute della democrazia nel mondo, nel 2023 l’Ungheria occupa la novantaseiesima posizione, mentre la Polonia la settantasettesima, peggio di Malawi, Liberia, Sri Lanka o Lesotho.

Secondo l’indice elaborato dal V-Dem Institute, che misura la salute della democrazia nel mondo, nel 2023 l’Ungheria occupa la novantaseiesima posizione, mentre la Polonia la settantasettesima, peggio di Malawi, Liberia, Sri Lanka o Lesotho

Come ricorda Tonia Mastrobuoni in un recente saggio (L’erosione, Mondadori, 2023), i governi guidati da Beata Szydło (2015-2017) e Mateusz Morawiecki (2017-2023) hanno limitato l’indipendenza della magistratura, epurando i membri della Corte Costituzionale e della Corte Suprema, sostituiti con uomini di provata fede del PiS, e unificando i ruoli di procuratore generale e ministro della Giustizia. La creazione di una Camera disciplinare per punire i giudici non proni al partito di governo ha comportato nel 2021 una condanna della Corte di Giustizia dell’Ue – una “semplice” multa di un milione di euro al giorno –, aggirata furbescamente con la sua sostituzione con un altro organismo, la Camera di responsabilità professionale, che alla fine ha la stessa funzione repressiva del dissenso tra i togati.

Il progressivo controllo dei mass media è confermato dal World Press Freedom Index di Reporter senza Frontiere, che ha declassato il Paese dalla diciottesima posizione nel 2015 alla sessantaseiesima nel 2022. I media pubblici sono ormai bollettini governativi, ma gradualmente gli spazi di libertà informativa stanno scomparendo anche nei media privati, una parte dei quali è stata acquistata da imprese di proprietà pubblica, leggasi governativa. Aggiungasi a tutto ciò la stretta ultraconservatrice in quanto a diritti: la proibizione dell’aborto, nel 2020, è costata già la morte a oltre una decina di donne – lasciate morire dai medici piuttosto che interrompere la vita del feto e dunque rischiare il carcere – e la persecuzione di attivisti pro-aborto; la criminalizzazione dell’omosessualità ha portato alla dichiarazione da parte di centinaia di comuni di essere municipi “Lgbt-free”. Senza contare poi il radicale revisionismo storico che ha condotto all’approvazione di una legge che vieta di parlare della partecipazione dei polacchi all’Olocausto.

Si diceva che la Polonia non è l’Ungheria. E qui sta il quid della questione. Con i suoi 38,2 milioni di abitanti è il quinto Stato più popoloso dell’Ue, dopo Germania, Francia, Italia e Spagna. Rispetto ai 21 deputati che Budapest elegge a Strasburgo, Varsavia può contare su una delegazione di 52 rappresentanti, la metà dei quali sono del partito di governo, membro dei Conservatori e Riformisti Europei (Ecr), insieme a Fratelli d’Italia, Vox e i Democratici di Svezia. Il loro potere di contrattazione è ben maggiore del gruppo di Fidesz. E non solo per numero. Nel 2019 il PiS votò a favore dell’elezione di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione europea, evitando l’isolamento come Orbán, Salvini e Le Pen. Ciò ha permesso a Varsavia di mantenere un filo diretto aperto con Bruxelles, anche se le tensioni sono costanti: già nel 2018 fu avviata la procedura per applicare l’articolo 7 del trattato alla Polonia che implicherebbe la sospensione del diritto di voto in seno al Consiglio dell’Ue.

Ma la Polonia è anche la sesta economia dell’Unione, per quanto a grande distanza dai Paesi che la precedono, e dispone di un esercito tra i più potenti del continente. La spesa militare è stata portata al 3% quest’anno, le forze di terra stanno per essere triplicate – da 110 mila a 300 mila uomini – e le strutture modernizzate con acquisti essenzialmente extraeuropei (Stati Uniti e Corea del Sud). Per di più, Varsavia, baluardo atlantista, ha da sempre stretti legami con Washington e Londra: non solo è fermamente contraria a una difesa comune europea, ma è il principale rappresentante di quella “nuova Nato” – patrocinata da settori dell’establishment statunitense con Donald Rumsfeld e George Friedman in testa – che dovrebbe sostituire la “vecchia Nato” a trazione franco-tedesca. O, perlomeno, ribaltare gli equilibri continentali, spostando il baricentro a Est. Per quanto possa sembrare un progetto utopico, a Washington e soprattutto a Varsavia si favoleggia di una Polonia imperiale, come spiegava a marzo “Limes”. Un progetto che rispolvera, aggiornandolo, il sogno del Trimarium, una confederazione o area di influenza sotto l’egida polacca che unirebbe il Baltico al Mar Nero e all’Adriatico.

Le recenti dichiarazioni di Morawiecki sulla possibile interruzione degli aiuti a Kiev non segnano un’improvvisa sterzata di Varsavia. Devono semplicemente leggersi in chiave interna. Il prossimo 15 ottobre, difatti, la Polonia andrà al voto e, a meno di sorprese, il PiS, che i sondaggi danno al 38%, vincerà le elezioni e si manterrà al governo del Paese. In queste settimane deve però rintuzzare le residue speranze di un’opposizione guidata da Coalizione Civica, data al 30%, contro cui sta usando mezzi leciti e non. Un esempio è la cosiddetta Legge Tusk che, attraverso una supposta commissione che dovrebbe eliminare dalla vita politica i responsabili di interferenze russe, vorrebbe colpire l’ex premier Donald Tusk, candidato di Coalizione Civica. Ma, soprattutto, il PiS sta cercando di evitare di perdere voti a destra, dove Confederazione Libertà e Indipendenza cavalca l’insoddisfazione degli agricoltori polacchi a causa dell’importazione di grano ucraino. In caso di necessità, nessuno scarta l’ipotesi che il partito autoritario, paleolibertario e negazionista del Covid fondato cinque anni fa dal cospirazionista Janusz Ryszard Korwin-Mikke potrebbe convertirsi in partner di governo del PiS, spostando ancora più a destra un esecutivo di per sé già illiberale.

La probabile vittoria del PiS spianerebbe la strada alla definitiva orbanizzazione della Polonia che diventerebbe la seconda autocrazia elettorale nell’Ue. E il governo di Morawiecki si sentirebbe ancora più forte per bloccare qualunque tentativo di una maggiore integrazione europea

La probabile vittoria del PiS spianerebbe la strada alla definitiva “orbanizzazione” della Polonia che diventerebbe la seconda autocrazia elettorale nell’Ue. E il governo di Morawiecki, ma con Jarosław Kaczyński a tirare le fila, si sentirebbe ancora più forte per bloccare qualunque tentativo di una maggiore integrazione europea, facendo sponda non solo con Budapest, ma anche con governi ideologicamente affini come quello italiano e quello finlandese. Vale la pena ricordare che nell’autunno del 2021 la Corte Costituzionale polacca mise in discussione in due sentenze il primato del diritto europeo su quello nazionale. Non si tratta di questioni di poco conto.

In sintesi, la Polonia non solo è il perfetto esempio di come il modello ungherese si sia espanso, diventando una vera e propria minaccia per la sopravvivenza di quello liberale e pluralista di democrazia che davamo ormai per scontato in Occidente. Ma, favorita dalla congiuntura internazionale creatasi con l’invasione russa in Ucraina, la Polonia, da tempo cavallo di Troia di processi centrifughi nel seno dell’Unione, è assurta, nelle parole di Lucio Caracciolo, a principale e poderosa “suffraganea americana nello schieramento antirusso” con un retrogusto anti-tedesco, anti-europeista e anti-“vecchia Nato”.

Molto ovviamente dipenderà da come si chiuderà la guerra in Ucraina e dagli equilibri politici che si creeranno dopo le elezioni europee del giugno prossimo, dove un settore dei popolari vorrebbe allearsi con l’ultradestra dell’Ecr. In ogni caso, a qualunque osservatore minimamente obiettivo dovrebbe risultare evidente che per il suo peso specifico, la sua capacità di incidenza e la centralità conquistata all’interno della Nato la Polonia è ormai una minaccia esistenziale per lo stesso progetto europeo. Converrebbe trarne le dovute conclusioni, senza temporeggiare ancora.