Il grido di allarme lanciato su queste pagine da Paolo Prodi è certamente comprensibile e un certo grado di preoccupazione, sulle stesse basi, è in gran parte condivisibile. Tuttavia essendo un giuslavorista non operativo e quindi non dirigendo – né con sicumera né senza – alcuna istituzione previdenziale, mi sento autorizzato a qualche risposta (solo un poco) più rassicurante.

Non c’è dubbio che il sistema di finanziamento a ripartizione – gli attivi generano le risorse immediatamente destinate agli inattivi – nato per contrastare gli effetti dell’inflazione sui sistemi a capitalizzazione, soffre il declinare del rapporto quantitativo tra i due gruppi della popolazione. Tuttavia, il problema non si risolve con un improbabile ritorno alla capitalizzazione: gli inattivi, o prevalentemente inattivi, cosa potrebbero mai capitalizzare?

Il sistema di finanziamento a ripartizione ha peraltro un solido aggancio valoriale: la solidarietà intergenerazionale. Si può discutere se ci sia ancora bisogno di valori e, tra questi, della solidarietà ma questo tema conviene oggi lasciarlo da parte.

D’altra parte, se il mondo non salta per aria e continuano i trend attuali, ci saranno sempre più anziani e tendenzialmente sempre più in buona salute, quindi un ragionevole incremento dell’età pensionabile non è un palliativo ma una misura necessaria. Questo è in contraddizione insanabile con il lavoro dei più giovani, innescando il declino del rapporto attivi/inattivi di cui sopra? Non è una conseguenza necessaria, lo è solo in presenza di una riduzione incontrollata dell’occupazione.

Il modo di calcolo del trattamento è un altro elemento sul quale riflettere senza pregiudizi. Anche qui un riferimento valoriale può essere d’aiuto: la responsabilità del cittadino, l’adempimento del «dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società», portano a miscelare con il finanziamento intergenerazionale un sistema di calcolo che riprende la capitalizzazione. Ecco il calcolo contributivo, che soffre anch’esso dello stesso limite evidenziato sopra: la crisi occupazionale. Il secondo comma dell’art. 4 della Costituzione sopra riprodotto è infatti privo di senso se staccato dal primo: il diritto al lavoro e l’impegno della Repubblica a promuoverlo.

Si discute molto in queste settimane di flessibilità dell’accesso al pensionamento. A fronte della situazione drammatica evocata da Paolo Prodi sembra di discettare di un lusso. Invece dovrebbe costituire un tratto fondamentale di un sistema che non sia più – come ha ben detto lo storico – legato al mondo della fabbrica e dell’impiego necessario fino all’esaurimento delle forze. Ovvero, per dirla in altro modo, di un sistema nel quale l’età di pensionamento era in origine fissato ben oltre la vita media, per poi molto lentamente questa superare quella, fino alla distanza attuale.

L’Italia fu tra le prime, se non la prima in assoluto in Europa, a introdurre nel proprio ordinamento la flessibilità trasparente dell’età di pensionamento con la riforma Dini-Treu del 1995. Trasparente, perché in verità una flessibilità opaca, legata cioè a meccanismi particolaristici, è sempre esistita. Negli anni Duemila quello schema, che molto semplicemente prevedeva di rapportare l’entità dell’assegno, a calcolo contributivo, all’età scelta per il ritiro, all’interno di un range prefissato, secondo un algoritmo basato sull’aspettativa di vita, è stato abbandonato per tornare all’età secca. Oggi se ne riparla, ma dalla prospettiva rovesciata, rivelata, come spesso succede, dal termine volgare che viene usato per indicare il calcolo del trattamento: «penalizzazione». Chi chiede di ritirarsi prima dell’età secca è un renitente che deve essere punito («penalizzato»), ma il decisore magnanimo sta studiando il modo di rendere sopportabile la pena (e intanto magari fare anche un po’ cassa)!

Quello di scegliere responsabilmente – cioè portandone le conseguenze in termini trasparenti ed equi – il proprio percorso di vita del dopo-occupazione dovrebbe essere un diritto e non una concessione a basso tasso di punizione. Ma per arrivare a questo, scegliere in libertà quando e con che ammontare di pensione ritirarsi, deve starci dietro una vita attiva a occupazione stabile (anche se non nello stesso posto, come oggi sembra essere il futuro). Insomma, anche per l’auspicabile flessibilità in uscita, lo sguardo torna sull’occupazione, come per il sistema a ripartizione e il calcolo contributivo.

Il problema delle pensioni non sono le pensioni ma il lavoro, creatore di valore materiale e immateriale, di cui il mondo finanziarizzato sembra avere smarrito financo la nozione, fino a che non interverranno responsabili scelte politiche in senso contrario.