Il 12 giugno scorso ho presieduto un seggio, dove ha votato, in linea con il dato nazionale, quasi il 21% degli elettori. Un’affluenza alle urne bassa, in gran parte sostenuta dalla porzione matura del corpo elettorale, e segnata dalla quasi assenza dei giovani. Al termine della giornata, quando il sole battente del pomeriggio è stato sostituito dai moscerini e dalle zanzare attirati dalle luci al neon dell’aula scolastica in cui eravamo, uno degli scrutatori ha detto che tra il caldo, l’umidità e gli insetti il seggio era diventato una palude. Una battuta calzante sia per la giornata sia per l’istituto del referendum abrogativo.

L’articolo 75 della Costituzione consente a 500 mila elettori o a 5 Consigli regionali di chiedere che il corpo elettorale si pronunci sull’abrogazione totale o parziale di una legge o di un atto avente forza di legge dello Stato, fatta eccezione per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto e di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali. La consultazione è valida se partecipa al voto la maggioranza degli aventi diritto, cioè i cittadini che hanno compiuto la maggiore età. Il dettato costituzionale ha trovato applicazione a partire dall’entrata in vigore della legge 352 del 1970, che ha disciplinato i referendum previsti dalla Costituzione e l’iniziativa legislativa popolare.

Nel 2021 sono state annunciate 19 richieste referendarie, ma solo 9 sono giunte al deposito delle firme. Quella per abrogare la legge sulla protezione della fauna e sul prelievo venatorio non ha superato il vaglio di legittimità dell’Ufficio centrale per il referendum della Corte di cassazione per mancato raggiungimento del numero di firme a sostegno della richiesta, mentre quelle sulla responsabilità civile dei magistrati, sull’omicidio del consenziente e sulle sostanze stupefacenti sono state dichiarate inammissibili della Corte costituzionale. Il giudizio di ammissibilità della Consulta è divenuto un passaggio cruciale della procedura referendaria, che ha affiancato ai limiti espliciti della carta alcuni limiti impliciti ricavabili in via interpretativa dalla Costituzione, in particolare dagli articoli 1 e 48. Considerata la numerosità dei quesiti presentati, l’eterogeneità delle materie investite e la possibilità di presentare richieste di abrogazione parziale, la giurisprudenza costituzionale che ne è seguita non è facilmente riconducibile a una matrice unitaria e ciò si ripercuote sul lavoro preparatorio al quale sono chiamati i comitati promotori nella formulazione delle richieste; emblematica a riguardo è la storica vicenda dei referendum elettorali.

Sono così arrivati al voto i soli cinque quesiti sulla giustizia, nati da un’intesa fra il Partito radicale e la Lega. Come è noto, i radicali hanno utilizzato per primi lo strumento referendario al fine di raggiungere alcuni dei propri obiettivi politici, fra i quali tradizionalmente rientra il tema della giustizia (non a caso lo slogan “giustizia giusta” era stato già utilizzato nelle consultazioni del 1987). La Lega, invece, che non ha mai manifestato una specifica sensibilità per il tema, ha continuato a utilizzare il referendum per alimentare la doppia anima “di lotta e di governo”, con intenti riconducibili al proprio posizionamento di fronte all’elettorato – cavalcare le reazioni agli scandali che hanno investito il Consiglio superiore della magistratura e il monito riformatore a più riprese espresso dal capo dello Stato – e nella maggioranza di governo (così A. Morrone, I referendum abrogativi in chiaroscuro). Una scelta che, nella sua piena legittimità, ha finito per allontanare l’istituto dalla sua vocazione originaria.

D’altro canto, la Lega è stata decisiva ai fini della presentazione delle richieste, che non sono state sostenute dall’iniziativa popolare, ma da quella dei Consigli di nove regioni guidate dal centrodestra (Basilicata, Friuli Venezia-Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Sardegna, Sicilia, Umbria e Veneto). L’iniziativa regionale vanta tre precedenti fra i referendum giunti al voto – nel 1993, nel 1997 e nel 2016 – accomunati dalla volontà di riformare alcuni aspetti del sistema regionale nella direzione di una maggiore autonomia dal centro.

Per la prima volta, è stata possibile la sottoscrizione digitale delle firme: in futuro potrebbe rivitalizzare l’iniziativa popolare e contribuire a ridefinire il ruolo dell’istituto referendario

Nel 2021, invece, i quesiti hanno riguardato una materia estranea alla sfera di competenza delle regioni e lontana dai loro specifici interessi, fatta forse eccezione per quello riguardante l’abrogazione del decreto legislativo Severino, per l’impatto che ha sull’attività politica, anche a livello locale. Ciò significa che, come era già avvenuto in occasione della richiesta del referendum sull’abrogazione del Rosatellum, poi bocciata dalla Corte costituzionale, le Regioni hanno risposto a una richiesta politica nazionale, prescindendo dalla loro vocazione territoriale e dal loro mandato istituzionale. Il connubio tra iniziativa politica nazionale e regionale, ancora una volta legittimo, ha costituito un secondo allontanamento dalla configurazione costituzionale dell’istituto, che peraltro non ha aiutato la costruzione di un dibattito pubblico sui temi che sarebbero stati oggetto di deliberazione popolare, poiché ha esaurito l’iniziativa entro le istituzioni della politica, rinviando il momento del confronto diretto con i cittadini.

Il ricorso alle Regioni è stata anche una reazione (scorciatoia) alle oggettive difficoltà collegate alla raccolta delle firme. Nondimeno, per la prima volta in questa occasione, i comitati promotori hanno potuto giovarsi della sottoscrizione digitale. La proposta, in passato sollecitata a più riprese dai radicali, è stata introdotta da un emendamento presentato da Riccardo Magi e approvato in sede di conversione del d.l. 77 del 2021 (art. 38-quater l. 109 del 2021) nonostante il parere contrario del governo. Nella tornata che si è appena chiusa, questa opportunità è stata determinante per la sola raccolta delle firme del referendum in materia di produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti, ma in futuro potrebbe rivitalizzare l’iniziativa popolare e contribuire a ridefinire il ruolo dell’istituto referendario.

Arriviamo al voto. Dal referendum sul divorzio del maggio 1974 si sono tenute 72 consultazioni: nei 39 casi in cui è stato raggiunto il quorum strutturale il fronte dell’abrogazione ha vinto in 23 occasioni e quello della conservazione della legge in 16, negli altri 33 casi ha prevalso l’astensione. In questa ultima occasione si è toccato il punto più basso dell’astensione al voto: i cinque quesiti hanno solo sfiorato il 21% dell’affluenza. Il declino del numero di votanti, di certo sintomo della crisi dell’istituto, inizia nel giugno 1990, per poi affermarsi come tendenza dominante dal 1997, con la sola eccezione dei referendum del 2011. La scelta dell’elettore di non presentarsi alle urne, pur costituendo un’opzione legittima nell’ambito di una previsione costituzionale che subordina la validità del voto alla partecipazione della metà più uno degli aventi diritto, può essere motivata o dalla volontà di difendere lo status quo legislativo o dal disinteresse per i temi che sono oggetto di deliberazione. In entrambi i casi segnala l’incapacità dei promotori di persuadere la maggioranza degli elettori delle ragioni a sostegno dell’abrogazione di leggi che sono il frutto della volontà parlamentare, che fonda il requisito costituzionale del quorum.

Dal referendum sul divorzio del maggio 1974, si sono tenute 72 consultazioni: in 33 casi ha prevalso l’astensione

Sono dunque molte le responsabilità che hanno i promotori in relazione al successo o all’insuccesso di un’iniziativa referendaria. Ciò premesso non condivido l’opinione di chi ritene che i quesiti non fossero alla portata dell’elettorato o fossero lontani dalla sfera di interesse dei singoli. Non solo il (buon) funzionamento della giustizia è interesse di tutti, ma è sufficiente rileggere alcune delle domande del passato per convenire che le tecnicalità hanno sempre accompagnato questo istituto. Il referendum è uno strumento di partecipazione al processo decisionale dello Stato; la Costituzione, la legge e la giurisprudenza costituzionale definiscono in modo stringente le condizioni alle quali può essere convocato. Il voto è l’ultimo passaggio di un cammino che è iniziato da lontano e che ha superato lo scoglio dell’iniziativa e quello dei controlli di legittimità e ammissibilità. Una volta che è chiamato a decidere, il cittadino ha il dovere civico di informarsi e di maturare un’opinione sulla quale – più che le competenze, non a caso i presumibilmente competenti si dividono sui due fronti – incidono gli orientamenti politici e ideologici insieme con la lettura delle società e del sistema istituzionale in cui viviamo. Non vorrei che la valorizzazione della tecnica ci facesse perdere il senso della partecipazione.