Gli spunti di riflessione a riguardo della cosiddetta “antimafia sociale”, avviati da una preziosa nota di Paolo Prodi e arricchiti dai contribuiti di Luciano BrancaccioVittorio Mete (oltre a quelli di Alberto Vannucci e Raimondo Catanzaro, più specificamente sulla corruzione), aiutano a interpretare il rapporto tra rappresentazione delle mafie, rappresentazione della corruzione e norma/azione individuale. Il richiamo è alla necessità di superare una lettura emozionale della mafia. L’attenzione si concentra, quindi, sui nuovi interrogativi che sorgono a seguito dell’affermarsi della rappresentazione culturale delle mafie come male assoluto. Una narrativa egemone, ma allo stesso tempo inevitabilmente immersa in un unico, grigio e consumista eccesso d’informazioni, che giustifica contemporaneamente rappresentazioni arcaico-tradizionali, iper-moderne e mostruose.

E anche l’atteggiamento della cosiddetta “società civile antimafia” è tutt’altro che univoco. Da un lato, essa manifesta in piazza a favore di una forte contrapposizione normativa dai toni epici e quasi religiosi, in cui si scontrano bene/male, definendo quali siano i valori su cui fondare la nostra società e la nostra memoria collettiva. Dall’altro, rimane da capire quale sia il terreno su cui la società civile antimafia voglia portare il conflitto.

In altre parole, il rischio è che una parte della società assolutamente “civile/onesta” si erga avversaria di un’altra parte della società assolutamente “politica/corrotta”, e in tal caso ci si esporrà a quei problemi ben illustrati da Paolo Prodi, in un clima che, volendosi affidare a una metafora biologica, rischia di avere pericolosi effetti auto-immuni.

Da parte sua, la “società politica”, che appare divisa in gruppuscoli di potere antagonisti e schiacciata sul continuo referendum riguardante “l’uomo solo al comando”, non sembra intervenire in modo convincente o risolutivo. Essa cerca, invano, di (ri)legittimare se stessa: sia delegando la funzione politica a uomini nuovi, a volte troppo inesperti e privi di un adeguato retroterra culturale e politico, sia attraverso l’uso di norme restrittive e attraverso il coinvolgimento, sempre più frequente, dei magistrati nella gestione amministrativa. Tuttavia, così facendo, la “società politica” ammette anche il proprio fallimento e la propria incapacità (o non volontà?) di distinguere chiaramente chi, tra i propri membri, sia effettivamente degno di farne parte, sulla base di un rispetto della legalità che non deve essere solo di facciata.

In tal senso, forse, la “società politica” potrebbe dimostrarsi più attiva nel sanzionare con precisione e decisione i comportamenti devianti dei propri membri, come avviene in altri Paesi a più rigida tradizione etico-normativa. In concreto, per riprendere quanto detto da Prodi a riguardo delle lettere di presentazione, al fine di evitare una bassa e volgare banalizzazione mediatica, sarebbe condizione necessaria che coloro che fanno parte della società politica in senso ampio (in questo caso, i membri del corpo accademico) si attenessero a norme di comportamento che in altri Paesi sono condizioni basilari del vivere istituzionale. Ma tali norme troppo frequentemente vengono disattese e anche in caso di palesi violazioni del senso comune di legalità, il corpo accademico tende a restare spesso silenzioso (indifferente o impotente?), a non stigmatizzare, se non addirittura ad agire, di fatto, a favore di una difesa della categoria che non è sempre opportuno. Un diverso atteggiamento, al contrario, sarebbe auspicabile proprio alla luce di quell’attenzione all’azione individuale (e quindi anche all’azione collettiva) che Prodi richiama.

A fronte di ciò, le rappresentazioni di mafia e corruzione non sono così assimilabili come potrebbe apparire a prima vista. Se la mafia, infatti, è rappresentata come un qualcosa di assolutamente malvagio, la corruzione, invece, risulta essere la più palese manifestazione del potere di una “società politica” indistinta, frammentata e irresponsabile rispetto a se stessa e ai problemi che l’attraversano.

Così non stupisce che, leggendo “il Corriere della Sera”, un influente dirigente della pubblica amministrazione da poco arrestato per corruzione venga descritto non solo senza alcuno stigma, ma con un profilo: “signorile”, “tranquillo”, “educato” (testuale) insomma, praticamente un Lord inglese in camicia “bianca o celestina”, che sembra ben lontano dal puzzare di corruzione (e tantomeno di mafia) ma, semmai, nel dibattito pubblico sembrerà profumare di imperturbabile potere. Un potere alla cui gestione, bisogna ricordarlo, partecipa anche la società civile.