Il governo Meloni sta adottando una serie di provvedimenti per semplificare l’agire delle pubbliche amministrazioni (il riferimento è alle disposizioni urgenti per l’attuazione del Pnrr di cui al decreto-legge n. 13/2023 e al nuovo Codice dei contratti pubblici introdotto dal decreto legislativo n. 36/2023), limitando al contempo l’intervento della Corte dei Conti (con riguardo al controllo concomitante e alla responsabilità erariale) e del giudice penale (il riferimento è alla soppressione del reato di abuso d’ufficio prevista dal disegno di legge dell’ennesima riforma della giustizia). A questi provvedimenti si aggiungono le risposte piccate del ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Salvini ai moniti dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) sui rischi corruttivi nei lavori pubblici e l’uso, talvolta spregiudicato, del potere di nomina al fine di rimuovere i vertici della burocrazia bocciati dagli altri ministri perché capaci solo di dire no alle proposte del governo di centrodestra.

In sostanza, sembra che il governo Meloni stia perseguendo una strategia volta a liberare la burocrazia dai molti vincoli di legge che rallentano ogni sua decisione ma anche dalle forme di controllo che ne assicurano imparzialità e integrità. Le spinte ad adottare questa strategia sono diverse: la prima, frequente nei partiti che si trovano al governo, è quella di guadagnare spazi di discrezionalità nella gestione delle risorse; la seconda concerne l’insofferenza tipica dei partiti populisti al governo rispetto alle resistenze dei burocrati e ai rilievi degli organi di controllo che spesso si traduce in attacchi ripresi e amplificati dalla stampa e dalle opposizioni; la terza riguarda l’esigenza obiettiva di accelerare l’attuazione del Pnrr sia a livello centrale sia sul territorio.

Non è al momento possibile valutare se le iniziative del governo Meloni possano realmente modificare il regime giuridico dell’attività amministrativa. È infatti verosimile che il dibattito parlamentare oppure le norme di attuazione attenuino l’incisività dei provvedimenti già adottati. Tuttavia, è opportuno ragionare sin da ora sulle implicazioni della strategia perseguita dal governo di centrodestra. Alcuni hanno messo in rilievo che, al di là delle ragioni che li hanno sospinti e dei modi con cui sono stati realizzati, gli interventi del governo Meloni vanno nella giusta direzione di eliminare controlli, in parte inutili e in parte anche dannosi, i quali ritardano e irrigidiscono le scelte pubbliche innescando riflessi difensivi nella burocrazia. Altri invece stanno gridando allo smantellamento dello Stato di diritto che lascerebbe mano libera al malaffare. In particolare, hanno assunto rilievo mediatico le preoccupazioni espresse dalla Commissione europea nella Relazione sullo Stato di diritto del 5 luglio 2023 relativamente alle misure adottate dal governo italiano che potrebbero compromettere l’efficacia della lotta alla corruzione.

La discussione sull’efficacia dei controlli si inserisce in un più ampio dibattito, ormai ultradecennale, sull’impostazione delle politiche di prevenzione della corruzione e, più in generale, sulla disciplina normativa dell’azione amministrativa. Dopo lo scoppio di Tangentopoli, infatti, si accese la disputa tra i fautori del cosiddetto “gendarmone” e quelli della modernizzazione amministrativa. I primi propugnavano il rafforzamento delle già molte regole che avviluppano l’agire dei pubblici poteri e l’aumento della pervasività dei controlli. I secondi ritenevano che la corruzione si previene rendendo più capaci le amministrazioni di adottare scelte basate su evidenze, più trasparenti e più spedite.

Da allora, le istanze di questo secondo fronte si sono fortemente affievolite per due motivi. Da un lato, le ambiziose riforme amministrative lanciate negli anni Novanta dai ministri Cassese e Bassanini non hanno ridotto in modo significativo l’insoddisfazione dei cittadini per i servizi ricevuti, rivelando quanto sia difficile attuare le politiche di modernizzazione delle burocrazie nel nostro Paese. Dall’altro lato, l’Italia nell’ultimo trentennio non è mai realmente uscita da una crisi fiscale, acuitasi nel 2008, che ha indotto i governi di ogni segno politico a prediligere politiche di contenimento della spesa pubblica operate attraverso tagli lineari.

Negli ultimi anni si è convogliata verso l’obiettivo dell’integrità la domanda sociale di cambiamento amministrativo che i governi non sono riusciti a tradurre in politiche efficaci

In questo scenario, nell’ultimo decennio sembra aver nettamente prevalso la linea del “gendarmone” con l’adozione della legge n. 190/2012, l’introduzione delle norme sulla trasparenza amministrativa e la costituzione dell’Anac. Si è trattato di provvedimenti spesso simbolici che hanno convogliato verso l’obiettivo dell’integrità la domanda sociale di cambiamento amministrativo che i governi non sono riusciti a tradurre in efficaci politiche di riforma del pubblico impiego. Si è così messa in moto una macchina dell’anticorruzione che fatica a raggiungere risultati (controlli assenti, richieste di accesso alle informazioni assenti o scarse almeno in moltissimi comuni, norme sul conflitto di interesse piene di buchi) e che ha gravato le amministrazioni di sempre nuovi adempimenti con scarse ricadute sulla virtù delle nostre istituzioni. Queste ultime, peraltro, spesso non riescono a garantire adeguati livelli delle prestazioni pubbliche a causa dell’invecchiamento e del depauperamento degli organici per effetto del blocco del turnover che si è protratto per quasi un decennio.

Ora c’è una reazione da parte del governo Meloni che, pur di avere le mani libere sul fronte della sua azione di governo, vuole gettare il bambino (trasparenza e regolazione dei conflitti di interesse) con l’acqua sporca. L’albero avvelenato di chi sta alleggerendo i controlli solo per il timore di essere perseguito dalla giustizia o di vedere stigmatizzato negativamente il proprio operato dai media, tuttavia, avrebbe generato dei frutti, se non buoni, almeno edibili a giudizio di alcuni riformisti contrari alla politica del gendarmone e preoccupati per le sorti dei progetti finanziati dal Pnrr.

È alto il rischio che il Pnrr sia gestito come una grande emergenza nazionale basata su regole eccezionali e deroghe alle leggi ordinarie

Questa lettura nel senso del male captum bene retentum risulta fuorviante per due ragioni. In primo luogo, le norme di alleggerimento del sistema dei controlli sono in larga misura eccezionali e temporanee e quindi non modificano in via generale e in modo strutturale il quadro normativo. Viene così lasciato in piedi tutto l’apparato costruito negli anni passati senza affrontare le sue molte manchevolezze e senza alleggerire veramente il carico burocratico che esso genera. Così facendo, è alto il rischio che il Pnrr sia gestito come una grande emergenza nazionale basata su regole eccezionali e deroghe alle leggi ordinarie. Non è improbabile, però, che questo approccio finisca per lasciare spazio a inchieste giudiziarie, come abbiamo visto succedere nel passato in occasione della gestione degli eventi calamitosi attraverso regole emergenziali.

Non è finora emersa, invece, l’istanza di rivedere in modo strutturale la disciplina complessiva della prevenzione della corruzione, nonostante l’abrogazione e la revisione delle norme che alimentano la corruzione fosse un esplicito obiettivo di riforma del Pnrr. A ciò si aggiunge il fatto che, nel momento in cui si riducono i controlli, poco o nulla si fa per aumentare l’effettiva trasparenza del sistema ReGIS rivolto alla rilevazione e alla diffusione dei dati di monitoraggio dei progetti finanziati dal Piano.

In secondo luogo, gli sforzi del governo in materia di riforma delle pubbliche amministrazioni sono stati finora focalizzati sulla pars destruens , trascurando quella construens. Le misure di semplificazione adottate in questi mesi non cercano di prevenire e comporre i conflitti, rendendo gli oneri posti ai privati per adempimenti amministrativi proporzionali ai benefici perseguiti dalle norme e impedendo dilazioni immotivate delle decisioni pubbliche. Si tratta piuttosto di misure derogatorie volte a eliminare o limitare drasticamente i poteri decisionali delle pubbliche amministrazioni, visti a prescindere come inutili ostacoli all’esercizio del potere di impresa. Inoltre, è illusorio pensare di risolvere il problema atavico dell’incapacità delle istituzioni di realizzare progetti facendo ricorso solo a rimedi procedurali.

Il malfunzionamento della burocrazia richiede invece una risposta articolata che vada a toccare i molteplici ambiti del sistema amministrativo, a partire dalla funzione dirigenziale che va messa al riparo dal sistema delle spoglie al fine di tutelare il valore della competenza. C’è poi bisogno della riduzione della frammentazione istituzionale per restituire un minimo di coerenza all’attuazione delle scelte pubbliche sul territorio. Alla luce della carenza di competenze tecniche nel pubblico impiego, urge procedere anche alla differenziazione salariale che renda appetibili i concorsi pubblici per profili professionali meglio retribuiti nel settore privato. Infine, i modelli organizzativi vanno rivisti sfruttando pienamente le opportunità della trasformazione digitale a fronte del calo del numero dei funzionari pubblici.

Al momento il governo sembra ritenere che sia sufficiente una politica di reclutamento di massa (170 mila assunzioni nel 2023) per aumentare la capacità delle pubbliche amministrazioni. Eppure, in netto contrasto con questa pioggia di assunzioni, sembra si voglia continuare a fare cassa sul pubblico impiego a giudicare dal Documento di Economia e finanza 2023 che ha previsto un calo della spesa pubblica per lavoro dipendente dal 9,8% del Pil nel 2022 all'8,4% nel 2026. Anche i recenti rinnovi contrattuali nel pubblico impiego (120 euro medi di aumento delle retribuzioni al mese, con picchi di 200 euro) a poco sono serviti a mitigare gli effetti dell’inflazione, anche se si tiene conto dell’emolumento accessorio una-tantum concesso in questa estate dal governo.

In conclusione, gli interventi del governo Meloni non sono stati orientati finora da una strategia che sappia sfruttare le opportunità della trasformazione digitale e del calo dei servizi dovuto alla crisi demografica per coniugare rigore dei conti pubblici e rinnovamento delle competenze dei funzionari pubblici. A questo vuoto contribuisce anche la scarsa attenzione che le disunite e spesso litigiose opposizioni prestano alla questione burocratica. È tempo invece che le forze politiche nel loro complesso mettano al centro dell’agenda istituzionale l’esigenza di adottare una profonda riforma amministrativa volta ad assicurare al contempo un effettivo contrasto alla corruzione e un percepibile aumento della capacità amministrativa.