Il triennio 2022-2025, l’intervallo in cui cade il sessantesimo anniversario dalla celebrazione del concilio Vaticano II (1962-1965), presenta già due importanti risonanze rispetto all’ultimo grande momento di incontro e riforma della Chiesa cattolica. La prima è il sinodo dell’ottobre 2023, a cui nel 2021 papa Francesco ha chiamato tutta la Chiesa prevedendo diverse fasi – locale, nazionale, continentale e universale; la seconda è la conferma della ripresa, durante questo pontificato, della liturgia come elemento dirimente per la recezione e attuazione del concilio.

L’ultimo elemento a conferma della centralità della liturgia per il pontificato di Francesco è la pubblicazione, il 29 giugno, della lettera apostolica Desiderio desideravi, «sulla formazione liturgica del popolo di Dio». Il documento va letto nel contesto inaugurato dal motu proprio del luglio 2021, Traditionis custodes, con cui Francesco ha limitato le cosiddette «messe in latino», le celebrazioni secondo il rito di Pio V precedente alla riforma liturgica del Vaticano II. La decisione di papa Bergoglio nasceva da un’indagine sulle condizioni di «salute liturgica» delle comunità ecclesiali, soprattutto in rapporto alla Chiesa globale e per evitare derive settarie dopo la liberalizzazione del rito pre-conciliare (che si riteneva abrogato dal Vaticano II) concessa da papa Benedetto XVI nel 2007.

Ma se lo svolgimento del sinodo in tutte le sue fasi e la teologia della sinodalità (come rendere strutturali le conseguenze di una Chiesa che ritiene i sinodi essenziali per la sua identità, allo scopo di liberarsi del modello monarchico-clericale ancora vigente), che emerge dalle indicazioni e dalle dichiarazioni vaticane e del pontefice, restano in buona parte da chiarire, differente è il giudizio sulla visione liturgica di Francesco, una visione matura in particolare sul piano delle convinzioni e degli obiettivi, che può contare sulle acquisizioni del movimento liturgico e sul contributo del Vaticano II. Ciò impedisce di considerarla una questione «interna», di poco interesse per non addetti ai lavori. Al contrario, il recupero da parte di Francesco della teologia della liturgia del Vaticano II ha implicazioni per la Chiesa anche nello spazio pubblico.

La visione liturgica di Francesco è una visione matura in particolare sul piano delle convinzioni e degli obiettivi, che può contare sulle acquisizioni del movimento liturgico e sul Vaticano II

Attraverso Desiderio desideravi, il cui titolo riprende le parole di Gesù durante l’ultima Cena nella versione dell’evangelista Luca (cf. Lc 22,15), il papa riflette sull’idea di celebrazione vissuta nelle comunità ecclesiali e ribadisce l’importanza del legame tra il cattolicesimo odierno e la liturgia immaginata dal concilio: «Le grandi costituzioni conciliari non sono separabili e non è un caso che quest’unica grande riflessione del concilio ecumenico – la più alta espressione della sinodalità della Chiesa della cui ricchezza io sono chiamato a essere, con tutti voi, custode – abbia preso l’avvio dalla liturgia» (DD 29). Il testo ha un approccio sistematico, ma l’intento è pastorale in quanto delinea un rapporto tra uguali nel nome di una fede comune: «L’azione celebrativa non appartiene al singolo ma a Cristo-Chiesa, alla totalità dei fedeli uniti in Cristo» (DD 19). La liturgia simbolizza tale rapporto ed è una «dimensione fondamentale della vita della Chiesa» (DD 1), di estensione universale perché «a quella Cena nessuno si è guadagnato un posto, tutti sono stati invitati» (DD4). Essa garantisce un accesso al Cristo per mezzo del rito: «Non avremmo avuto altra possibilità di un incontro vero con lui se non quella della comunità che celebra». Infatti, «fin da subito la Chiesa è stata consapevole che non si trattava di una rappresentazione, fosse pure sacra, della Cena del Signore» (DD 9), perché «a noi non serve un vago ricordo dell’ultima Cena» (DD 11).

Il documento parla dell’attenzione alla liturgia adducendo ragioni che non si possono limitare alla sfera religiosa. Il papa torna sul rischio della «mondanità spirituale», la tendenza a fare delle proprie priorità l’agenda della Chiesa, che egli ricava dal teologo francese Henri de Lubac (1896-1991) e a cui contrappone la liturgia come antidoto. Ciò significa rifiutare una fede soggettivista e narcisista (cf. DD 17-20), un approccio autoreferenziale (che contrasta con la soggettività plurale della liturgia) e ridotto al self-making (opposto al carattere radicalmente non meritocratico della stessa). La lettera è un esempio di fedeltà al concilio in senso quasi «costituzionale» (per riprendere l’importante proposta del teologo Peter Hünermann), poiché giudica incomprensibili le perplessità sulla riforma liturgica conciliare senza il rifiuto del Vaticano II: «Non vedo come si possa dire di riconoscere la validità del concilio – anche se un po’ mi stupisce che un cattolico possa presumere di non farlo – e non accogliere la riforma liturgica nata dalla Sacrosanctum concilium che esprime la realtà della liturgia in intima connessione con la visione di Chiesa mirabilmente descritta dalla Lumen gentium» (DD 31).

La liturgia rifiuta una fede soggettivista e narcisista, un approccio autoreferenziale (che contrasta con la sua soggettività plurale) e ridotto al self-making (opposto al carattere radicalmente non meritocratico della stessa)

La descrizione della pratica liturgica da parte di papa Francesco recupera il valore del rito come dimensione significativa in antropologia oltre che in teologia (le sezioni più corpose del testo sono i numeri 27-47 e 48-60, raccolti in paragrafi dedicati alla necessità di una formazione liturgica e all’ars celebrandi). Così si denuncia l’incapacità dell’essere umano post-moderno «di confrontarsi con l’agire simbolico che è tratto essenziale dell’atto liturgico» (DD 27) e la banalità di interpretare le tensioni intorno alla celebrazione «come una semplice divergenza tra diverse sensibilità nei confronti di una forma rituale» (DD 31). La questione ecclesiologica che ne deriva pone il tema della formazione liturgica, che per il papa coincide con quanto aveva affermato il teologo italo-tedesco Romano Guardini: «Dobbiamo nuovamente imparare a porci di fronte al rapporto religioso come uomini in senso pieno» (cf. DD 34). È una sfida che consiste in un «fare» al tempo stesso elementare e concreto, «esattamente l’opposto di astrazioni spirituali» (DD 42). Per il papa «non si impara l’arte del celebrare perché si frequenta un corso di public speaking o di tecniche di comunicazione persuasiva» (DD 50).

L’atto liturgico non è un pio esercizio né una convenzione. È un agire pubblico, anti-elitario, che per questo riguarda anche la vita civile. Come ha scritto Francesca Lacqua, nelle nostre società democratiche è contemplata una ritualità che «si struttura attraverso la mobilitazione del simbolico che viene agito nella piazza e, più in generale, nella pratica diretta e collettiva dello spazio». L’ars celebrandi richiede un’interazione tra soggetti e spazi, un convivere che è vivere e far vivere un luogo con altri, ma anche essere toccati dall’interazione reciproca. Prevedendo la partecipazione e non la cooptazione, la liturgia inizia a una convivenza plurale determinata dalle possibilità che derivano dagli spazi.

Inoltre questo tipo di convivenza suppone un’idea dei soggetti che non coincide con la soggettività sostenuta dal populismo. Il popolo radunato nell’aula liturgica non è massa indistinta, ma un insieme riconoscibile (e, teologicamente, riconosciuto) di soggetti che celebra come collettivo, in forza di un sacerdozio comune. L’assemblea poi non è destinataria di un appello che viene dal rappresentante di turno, ma di quello di Dio soltanto, che la convoca e la abilita alla celebrazione congiunta.

Perdere il senso della liturgia è perdere il senso del vivere e celebrare insieme, il che spiega perché il Vaticano II abbia messo al centro della vita ecclesiale l’eucarestia come celebrazione, il rito al quale si accede da soggetti in relazione tra loro. La formazione liturgica descritta in Desiderio desideravi nasce dal celebrare e conduce al celebrare. Essa persegue una cura dell’implicito delle nostre vite e del suo necessario rapporto con l’esplicito. Celebrare insieme non è una proposta tradizionalista, è ciò che il tradizionalismo non riesce a pensare.