Guardando Oltralpe e provando a mettere un minimo di ordine negli oltre tre mesi di caos politico e sociale legati alla riforma pensionistica che, tra le novità, innalza l’età pensionabile da 62 a 64 (tre mesi ogni anno da qui al 2030), è necessario partire da alcuni assunti preliminari. La soddisfazione nei confronti dell’operato del presidente della Repubblica è a livelli più bassi di quelli toccati nella crisi dei gilets jaunes (tra il 2018 e il 2019). Sette francesi su dieci disapprovano, spesso per ragioni differenti, il suo operato. Dato che scende ancora di più se si considerano i giovani. Contestualmente si nota la crescita di approvazione verso la leader del Rassemblement National Marine Le Pen, piuttosto abile nella partita politica sulle pensioni. Fanalino di coda il primo ministro Borne, che non riesce a raccogliere un livello di gradimento almeno pari a quello, già mediocre, del presidente Macron.

I problemi di Macron non sono iniziati con la riforma delle pensioni, ma con il suo “mezzo successo” dell’aprile 2022 e con la “quasi sconfitta” delle successive legislative

Secondo elemento da non trascurare è che i problemi di Macron non sono iniziati con la riforma delle pensioni, ma con il suo “mezzo successo” dell’aprile 2022 e con la “quasi sconfitta” delle successive legislative. Per quanto riguarda le presidenziali Macron ha perso circa due milioni di voti rispetto al 2017 (mentre Le Pen ne ha guadagnati più di due milioni e mezzo). Ma l’elemento politicamente penalizzante è l’Assemblea nazionale del dopo legislative: la maggioranza presidenziale è solo relativa, mancando 55 seggi per raggiungere quella assoluta. Senza definire quella insediatasi a metà 2022 come un’Assemblea ingovernabile, è però evidente che con due ali estreme così forti (France Insoumise e Rassemblement national) e il partito potenzialmente cardine per il presidente Macron, cioè Les Républicains, divisi al loro interno tra la logica del partito di governo e quella di opposizione al macronismo, qualsiasi ipotesi di riforma parte già in salita.

Il terzo elemento da sottolineare è che gli strumenti del parlamentarismo razionalizzato esistono nella Costituzione della V Repubblica e il tanto citato 49.3 (cioè la possibilità di far passare un provvedimento senza dibattito parlamentare seguito dalla possibilità per le opposizioni di presentare una mozione di censura che scatta solo a maggioranza assoluta) ne è l’emblema e istituzionalmente, oltre che politicamente, non dovrebbe essere considerato una “forzatura”, o addirittura uno strumento di limitazione delle libertà democratiche.

Tra il 1959 e oggi tale procedura è scattata 100 volte. Tra il 1968 e il 1976 i primi ministri Couve de Murville (presidente de Gaulle), Chaban-Delmas e Messmer (presidente Pompidou) e Chirac (presidente Giscard) non lo hanno mai utilizzato. A zero ci si ferma anche nel periodo 1997-2002 (Jospin in coabitazione con Chirac presidente), nei cinque anni di Fillon primo ministro 2007-2012 (con Sarkozy presidente) e Ayrault (nei primi tre anni di presidenza Hollande). A essere interessanti sono però i picchi, che non a caso riguardano gli anni 1988-1993 (secondo settennato di Mitterrand), quando prima l’esecutivo Rocard (1988-1991, 28 utilizzi del 49.3), poi i due effimeri governi Cresson e Bérégovoy, utilizzeranno altre 11 volte il “famigerato” articolo costituzionale. Che cosa accomuna la situazione attuale del governo Borne (11 utilizzi in circa un anno di vita) a quegli esecutivi di fine anni Ottanta, inizio anni Novanta? Maggioranze risicate all’Assemblea nazionale.

Ultimo elemento da considerare riguarda la supposta triplice crisi: del funzionamento democratico, dell’ordine pubblico e della decisione politico-istituzionale

Ultimo elemento da considerare riguarda la supposta triplice crisi: del funzionamento democratico, dell’ordine pubblico e della decisione politico-istituzionale. Sulla prima si può discutere, sulla seconda concordare, sulla terza si rischia di uscire di strada. O meglio le istituzioni hanno retto ancora piuttosto bene, a riemergere è probabilmente il nodo del ruolo della coppia presidente/primo ministro in regime di quinquennato.

Fatte queste precisazioni occorre inserire la prepotente crisi di rigetto della riforma pensionistica, peraltro per nulla “radicale” e molto graduale nella sua implementazione, all’interno di un quarantennio di crisi identitaria del modello economico-sociale francese. Questo 2023 può essere compreso a pieno solo se connesso alla cosiddetta svolta del rigore mitterrandiana del 1983 e menzionando poi i traumi intermedi del 1992 (referendum su Maastricht con vittoria risicata del “sì”), del 2005 (referendum sul Trattato costituzionale europeo con vittoria del “no”, successiva fiammata delle banlieues e opposizione alla riforma Cpe sul contratto di formazione lavoro) e del 2018-2019 (protesta dei gilets jaunes). La Francia dell’ultimo quarantennio si sta trascinando in un complicato e per nulla risolto tentativo di adattamento del suo modello di Welfare alla globalizzazione neoliberale, il tutto unito alla perdita di controllo politico di un processo di integrazione europeo sempre più distante da quello delle origini.

Siamo di fronte a una crisi democratica reale o presunta? Su questo ci sarebbe molto da discutere

In questa cornice va poi inserito il tema delicato della reale o presunta crisi democratica. Nel dibattito politico e intellettuale transalpino si parla da tempo degli elementi distorsivi del parlamentarismo razionalizzato uniti a quelli di un sistema elettorale altrettanto distorsivo in termini di rappresentatività. L’attuale Assemblea nazionale, con 88 deputati RN e 75 FI, non può certo essere definita democraticamente escludente o discriminatoria nei confronti delle opposizioni. Si potrà dunque discutere e affermare, come tra gli altri hanno fatto Thierry Pech e Pierre Rosanvallon, che l’idea di democrazia della maggioranza dei francesi è oramai distante dalla logica di razionalizzazione del parlamentarismo insita nel 49.3 e nella verticalità del potere legata alla presidenzializzazione del sistema. Ma altrettanto legittimamente si potrà ricordare (lo hanno fatto tra gli altri Yves Mény e Dominique Schnapper) che il 49.3 rimane uno strumento costituzionalmente garantito e che il secondo passaggio in Assemblea nazionale (dopo il primo e quello al Senato) è stato in realtà interrotto dalla pioggia di ingiurie, di emendamenti fittizi e di continue interruzioni orchestrate dai parlamentari della France Insoumise, che una volta entrati in massa all’Assemblée nationale nel luglio scorso non hanno trovato di meglio che occuparla in queste settimane sventolando cartelli con impressa la parola “rue” (strada).

È in questo contesto che occorre quindi inserire la forse un po’ brutale affermazione del presidente Macron quando distingue tra “folla” e “popolo”, affermando che la prima non ha uguale legittimità rispetto ad un popolo che si esprime attraverso i propri eletti, parlamentari e presidente (eletto peraltro a suffragio universale diretto). Il messaggio pericoloso dei tre mesi di turbolenze transalpine è quello di derubricare le istituzioni a mero attributo procedurale, opponendovi il primato di una supposta legittimità politica, da individuare nella strada e nelle manifestazioni. La pericolosità sta proprio nel ragionamento delegittimante nei confronti di istituzioni democraticamente elette (e dunque rappresentative della sovranità popolare) o che vivono di procedure, naturalmente modificabili, seguendo però i canali costituzionalmente previsti.

Per concludere, occorre ricordare che Macron nel 2023, a differenza di Mitterrand nel 1984 sulla Loi Savary, di Chirac nel 1995 sui regimes speciaux e nel 2006 sulla Cpe e dello stesso Macron di fronte ai gilets jaunes (la carbon tax del governo Philippe fu parzialmente rivista), ha tenuto il punto, facendosi forza sulle istituzioni della V Repubblica e anche scommettendo su una sorta “impopolarità accettabile”, non dovendo concorrere per una rielezione nel 2027.

Rimangono sul terreno numerosi problemi, riassumibili in due categorie. Rispetto alla contingenza il presidente dovrà cercare nuovo slancio per non trovarsi con un secondo mandato politicamente “morto”, con quattro anni ancora a disposizione. E qui si inserisce il tema del possibile cambio del Primo ministro, optando magari per un profilo centrista, se non Républicains. Il problema è che proprio i post-gollisti si sono lacerati sulla riforma delle pensioni e non sono in grado di offrire quelle garanzie forse attese da Macron dopo le legislative del 2022.

Da un punto di vista strutturale Macron paga le improvvisazioni del suo primo mandato e in particolare le scelte di non investire sul partito e sulla necessaria costruzione di una nuova cultura politica. Inoltre la sua declinazione jupitérienne (e molto gaullienne) del ruolo del presidente, sommate alla conclamata difficoltà del sistema nell’adattarsi alla riduzione a cinque anni del mandato presidenziale e alla crisi endemica dei due partiti simbolo del bipolarismo strutturante (socialisti e gollisti), si inseriscono nell’attuale embrionale tripolarismo, nel quale però due dei tre soggetti non sono coalizzabili e soprattutto sono portatori di un radicalismo poco compatibile con una seria attività di governo. Il quadro è in movimento e le nuvole all’orizzonte non mancano.