C’è molta Cina negli aggiornamenti di attualità che scandiscono queste inedite settimane di quarantena. Se dal principio l’informazione sul Paese estremorientale, forzatamente scarsa e frammentaria, ha riguardato soprattutto l’estensione del contagio da Covid19 e le misure messe in atto per contrastarlo, lo spostamento del focus sull’emergenza di casa nostra ha comportato anche una nuova rappresentazione della Cina popolare come interlocutore privilegiato, in virtù del suo manifesto desiderio di aiutare gli altri Paesi sulla base della propria esperienza. Non è certamente sfuggito a nessuno che gli atti concreti di aiuto e i messaggi di incoraggiamento, per i quali è giusto essere grati, siano stati sostenuti da uno sforzo mirato e organizzato per dare loro la più ampia pubblicità possibile.

Chi conosce gli equilibri interni alla Cina ben più del sottoscritto, sostiene che l’offensiva propagandistica abbia anche finalità domestiche: soprattutto le trovate più grossolane, come l’applauso collettivo rivolto al personale sanitario italiano dai balconi e trasformato dai media cinesi in un ringraziamento agli esperti inviati da Pechino, dovevano servire a distogliere l’attenzione pubblica dai ritardi e dagli errori del regime sul fronte domestico e a mostrare, per così dire, come la situazione all’estero fosse peggiore di quella in patria. Tale evidenza, tuttavia, non cancella gesti di maggiore eleganza, come l’insistenza sul ringraziamento all’Italia per il pronto intervento in occasione del terremoto nel Sichuan del 2008. Più in generale, è innegabile che le immagini degli aerei carichi di aiuti e più ancora della delegazione medica cinese invitata in conferenze stampa congiunte con le autorità italiane siano entrate di prepotenza nell’iconografia collettiva dell’attuale crisi.

Se si cerca di astrarre dai singoli episodi per unire i puntini a livello globale, è difficile sfuggire all’impressione che le autorità cinesi stiano sfruttando l’emergenza per un’operazione di soft power che nel loro caso non ha precedenti. L’espressione soft power è stata resa celebre dagli studi dello scienziato politico Joseph Nye già dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso: con essa si definiva la capacità di un Paese di influenzare la condotta di altri evitando le «maniere forti» e facendo leva piuttosto su un’autorità morale riconosciuta, su valori politici attraenti e su un complesso di manifestazioni (dalla tecnica all’arte) riconducibili all’accezione più ampia del termine «cultura». Va da sé che gli obiettivi di tale influenza dipendono dalla portata degli interessi dei Paesi in questione.

In molte occasioni anche recenti, si è trattato piuttosto di tentativi da parte di alcuni regimi di migliorare la propria immagine internazionale, pregiudicata da scandali, corruzione o dispotismo, attraverso la promozione dei propri valori culturali: è il caso ad esempio dello «sportwashing», l’organizzazione di eventi sportivi internazionali su vasta scala impiegata dall’Arabia Saudita e dalle monarchie del Golfo per migliorare la propria reputazione e oscurare la repressione interna e la propria condotta in conflitti internazionali.

Diversa è la situazione di un Paese che, sulla base delle proprie ambizioni e di un potenziale adeguato a perseguirle, incorpori le proprie iniziative di soft power all’interno di una più ampia strategia mirata ad assicurarsi nel tempo un ruolo egemonico su scala globale. Non è un mistero che gli Stati Uniti, sui quali Nye ritagliava le proprie elaborazioni, ne siano stati maestri indiscussi nel ventesimo secolo, con una diffusione globale e massiccia di cultura popolare, gusti, modelli di consumo e quant’altro. Se questo si è abbinato spesso e volentieri all’impiego di un potere ben più «hard», dal possesso di armamenti letali all’intervento militare all’estero, è altrettanto vero che l’americanizzazione, soprattutto in quello che una volta si chiamava «primo mondo», si è servita di metodi ben più sottili e attraenti, come racconta tra gli altri il bel volume «L’impero irresistibile» di Victoria De Grazia. Non è una scoperta di oggi che proprio su quel piano la competizione a distanza con l’Unione sovietica per la conquista «dei cuori e delle menti» del mondo si sia rivelata ben presto impari, con l’altra superpotenza quasi mai in grado di imporre la propria egemonia nel mondo senza fare ricorso alle maniere forti o al mero vassallaggio dei governi locali.

È presto per dire se la Cina popolare abbia tratto delle lezioni da questa storia recente, così come è tutt’altro che scontata la sua volontà di impostare il rapporto con gli Stati Uniti sui binari di una nuova competizione bipolare ideologica e militare. Ciò non toglie che l’osservazione di quanto accaduto nelle ultime settimane sia interessante per rivelare gli obiettivi e i metodi del regime di Pechino fuori dai territori su cui esso ha esercitato finora il proprio soft power, come l’Asia e l’Africa, fin nel cuore di quell’Occidente di cui la stampa internazionale non cessa di decretare il tramonto. Per questo sono risultate ancora più deludenti, per quanto animate da una volontà apprezzabile, le prime analisi giornalistiche che hanno messo in guardia contro il rischio di un’improbabile «cinesizzazione» dell’Italia o di una rimessa in discussione della sua collocazione internazionale.

Il «modello cinese» appare difficilmente attraente agli occhi dell’Europa occidentale, la quale a sua volta continua a sentirsi parte perlopiù della sfera transatlantica, nonostante la condotta quantomeno disorientante dell’amministrazione Trump. Inoltre, l’esperienza storica insegna come le amministrazioni statunitensi non abbiano esercitato il loro soft power soltanto verso regimi politicamente affini o nella direzione di una loro democratizzazione: resta da capire se la Cina popolare saprà fare altrimenti ed elaborare codici di condotta utili a intrattenere rapporti privilegiati con sistemi politici diversi dal proprio.

Altrettanto fuori bersaglio sono parse le critiche che hanno rimarcato come soltanto una parte degli aiuti fosse gratuita, mentre il resto rientrava in transazioni commerciali: anche queste modalità hanno evidenziato semmai sia la difficoltà di ottenere altrettanto da parte di Paesi tradizionalmente alleati e amici, sia la scarsa capacità di reazione dell’Unione europea rispetto alle esigenze di primo soccorso. Quanto a quest’ultima, il massiccio dispiegamento della propaganda cinese ha anche fatto risaltare impietosamente le serie difficoltà comunicative delle autorità di Bruxelles, loro tradizionale tallone d’Achille, su quanto veniva già fatto per aiutare l’Italia.

Infine, le dure (e condivisibili) critiche volte a ricordare come il comportamento delle autorità cinesi abbia contribuito inizialmente a favorire la diffusione del virus risultano appannate di fronte alla gestione a dir poco improvvisata della crisi di molti governi occidentali (dalla decisione francese di aprire le urne alla vigilia del lockdown alla marcia indietro britannica sulla cosiddetta immunità di gregge), mentre la necessità di aiuti concreti largamente percepita dalla popolazione fa passare in secondo piano qualunque considerazione sul passato recente.

Dunque, è a un orizzonte più ampio in termini spaziali e temporali che bisognerà guardare per comprendere la vera natura e i veri obiettivi del soft power cinese, nonché la strategia complessiva di Pechino in cui esso si inserisce. E in questo quadro servirà tutto il realismo di cui gli osservatori informati potranno dare prova nel cercare riferimenti e similitudini con il passato; ma anche la loro volontà di rimettere in discussione assunti e paradigmi precostituiti di fronte a una situazione globale, quella determinata dalla pandemia, che ha scarsi paragoni con il passato.