Mentre in Italia faticosamente si avvia l’attuazione del ciclo di programmazione 2014-2020 dei fondi strutturali europei, a Bruxelles siamo nel vivo della discussione sulla riforma della Politica di Coesione per il post-2020: lo scontro è acceso, con posizioni che addirittura ne negano l’utilità per il futuro.

La posizione del governo italiano sul post-2020 propone suggerimenti in larga parte condivisibili di riforma della Coesione europea, da finanziare con risorse adeguate anche nel prossimo ciclo, per porre un argine ai crescenti divari regionali nell’Ue e favorire la convergenza economica e sociale, quale “bene comune europeo”. In particolare, il position paper offre al dibattito europeo le seguenti linee-guida:

  • un più virtuoso coordinamento della politica di coesione rispetto alla governance macroeconomica generale, tenuto conto della modesta dimensione finanziaria dei fondi strutturali (un terzo del già esiguo bilancio dell’Unione, che vale appena l’1% del Pil del continente);
  • dare seguito allo sforzo di semplificazione e armonizzazione delle regole per garantire il più ampio accesso alle opportunità offerte dai fondi europei;
  • salvaguardare le finalità proprie dei fondi della coesione, il loro utilizzo in coerenza con l’obiettivo di riduzione delle disparità regionali definito dai Trattati, e la loro specificità e indipendenza rispetto agli altri strumenti di promozione degli investimenti nell’Ue;
  • superare il meccanismo della condizionalità macroeconomica (togliere risorse a chi non consegue gli obiettivi indicati dalla Commissione, anche per la finanza pubblica o le riforme “strutturali”) per evitare di penalizzare i territori con maggiori difficoltà strutturali.

Si tratta di indicazioni quanto mai opportune perché orientate alla correzione dei noti vizi “interni” alla Coesione. Ma, proprio alla luce dei risultati insoddisfacenti fin qui conseguiti, sarebbe troppo ottimistico attendersi che la politica di Coesione, da sola, una volta corretti i suoi difetti, possa rendere la convergenza regionale un “bene comune europeo”.

È opportuno, a tal proposito, ricordare le dinamiche economiche fortemente differenziate osservabili all’interno della periferia dell’Ue a partite dagli anni Duemila (cfr. Rapporto Svimez 2017). Da un lato, lo slancio delle economie in ritardo di sviluppo dei nuovi Stati membri dell’Est Europa è continuato, anche durante la crisi; dall’altro, il Mezzogiorno continua ad arretrare.

Andamenti così differenziati derubricano gli scarsi risultati dei fondi strutturali al rango di concausa dell’arretramento del Sud. Le altre cause, anche maggiori, vanno ricercate altrove: la Coesione europea interviene in una cornice di condizioni e politiche macroeconomiche ordinarie che creano rilevanti asimmetrie interne alla sua periferia, amplificando a livello regionale gli squilibri tra economie nazionali. La non ottimalità dell’area euro, l’incompiutezza della governance macroeconomica europea e l’assetto delle sue politiche impattano in misura rilevante sui fattori della resilienza e della crescita delle economie locali; creano condizioni competitive più vantaggiose per le regioni appartenenti a Paesi con sistemi fiscali e contributivi più leggeri, nella condizione di utilizzare lo strumento del cambio, e con vincoli di bilancio sovranazionali meno stringenti. Specularmente, il Sud Italia soffre di sfavorevoli condizioni macroeconomiche nazionali e sovranazionali alle quali aggiunge le sue difficoltà strutturali endogene: una condizione di “svantaggio strutturale” non compensabile “solo” con politiche di Coesione più virtuose.

Come abbiamo argomentato in un nostro recente contributo che contiene anche alcune proposte di riforma, l’Italia dovrebbe porre in Europa il tema del coordinamento tra la Coesione e la governance macroeconomica europea complessiva: la politica di Coesione non può essere lasciata “da sola” a perseguire la riduzione dei divari che le politiche ordinarie contribuiscono ad amplificare.

Rivendicare il “primato” della Coesione, come principale leva di investimento pubblico, che ha attutito gli effetti della crisi, è risibile, vista la generale mancanza di addizionalità dei fondi, in parte dovuta ai vincoli per la finanza pubblica che derivano dal Fiscal compact. Se per un intero ciclo la Coesione è stata (solo parzialmente) sostitutiva delle mancate politiche pubbliche ordinarie, non solo nel Mezzogiorno, allora davvero l’obiettivo originario e fondamentale della convergenza si risolve nel suo contrario.

Inoltre, il forte potenziamento anche finanziario degli interventi nelle regioni più sviluppate, per il raggiungimento degli obiettivi strategici europei per il 2020, evidenzia la relativa minore attenzione riservata all’obiettivo della “convergenza”. È una tendenza del corrente ciclo, e che si annuncia anche per il post-2020, scarsamente coerente con le disposizioni del Trattato sulla riduzione dei divari: incrementare le risorse per obiettivi, materiali e territoriali, diversi è un'ulteriore causa delle divergenze interne all’Ue e in particolare all’Eurozona.

Non può che essere la maggiore economia europea con i più ampi differenziali regionali interni e con la più vasta area economica in ritardo di sviluppo a portare questo tema in Europa. Tanto più che il rilancio del Sud viene indicato, pressoché da ogni parte politica, come presupposto imprescindibile per la ripresa del Paese.

Il perno intorno al quale ruota l’interesse nazionale da salvaguardare è una politica europea generale per la convergenza, all’interno della quale difendere le “finalità proprie” dei fondi strutturali di riduzione delle disparità regionali. È in quest’ultimo ambito che altri interessi nazionali sembrano invece prevalere con l’obiettivo opposto di indebolire la Coesione europea. Il segnale più recente sta nella recente roadmap della Commissione europea per l'Unione economica e monetaria, che prevede la possibilità per i governi nazionali, già nel 2018, di destinare la riserva di performance dei fondi strutturali al finanziamento di riforme strutturali concordate con la Commissione. Riforme strutturali “nazionali” lontane dalla finalità di sviluppo dei territori deboli, è bene sottolinearlo. Questa possibilità sembra venire esplicitamente criticata dal position paper italiano, ma sarà bene che la critica si traduca in un’azione politica concreta di contrasto.

Le linee-guida del position paper italiano sono insomma più che condivisibili, ma questo è il tempo in cui si può e si deve dire di più, se si ha a cuore la tenuta socio-economica dell’Unione e se si vogliono contrastare i rischi di disgregazione.

 

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