Parto con una premessa, necessariamente troppo rapida, per cercare di contestualizzare un dibattito che sta attraversando la Francia da qualche mese in maniera particolare, ma che è come sospeso nel discorso pubblico da qualche anno. Se tale dibattito è nella pratica zoppo e vuoto nei contenuti teorici, risulta in realtà importante perché tocca molti nervi scoperti della nazione, della memoria collettiva, dell’idea di società e di politica. Tra l’altro, come ben sappiamo, il Paese ha pagato un prezzo molto alto al terrorismo di stampo islamista: ultimo episodio l’omicidio di Samuel Paty, professore di storia e geografia in una scuola media a Conflans-Sainte-Honorine, in Île-de-France.

Il Paese ha poi un passato coloniale complesso, lungo e problematico che male si incastra sui problemi sociali ed economici legati alla discriminazione, all’esclusione, alla pauperizzazione di alcuni settori della società molto spesso appartenenti a cosiddette «minoranze», persone issues de l’immigration che vivono in zone specifiche, non di rado ai margini dei grandi agglomerati urbani. La Francia ha un’idea specifica e unica di società e di nazione, quella della République, dove tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge, dove tutti hanno gli stessi diritti, una République che ha come divisa Liberté, Égalité, Fraternité a cui si sta aggiungendo, sorniona, la parola laicité, presente nella Costituzione già dal 1948. Laica per costruzione quindi: con l’eccezione di Alsazia e Mosella, dove tutt’ora vige il Concordato che comprende quattro culti (cattolico, protestante, calvinista ed ebraico), lo Stato non finanzia i culti. Ma la Francia ha anche un’identità cattolica forte e in crisi, come ovunque: fino a qualche anno fa ancora, il 56% della popolazione si dichiarava cattolico. E la più grande comunità musulmana in un Paese europeo (tra i 5 e i 6 milioni di persone, i numeri esatti non si conoscono perché la laicità francese vieta statistiche «etniche»).

Negli ultimi dieci-quindici anni almeno, il dibattito sulla «laicità» si è incastrato su quello dell’identità. E l’identità è cosa complessa e dolorosa. L’ultimo capitolo di questa polemica, piena di passi in questo senso — potrei citare la legge che vieta nelle scuole e nei luoghi pubblici i simboli religiosi (sulle persone, non sui muri), quella per l’interdizione del velo integrale, la discussione «nazionale» su Islam e laicità voluta da Sarkozy, il dibattito sul divieto del burkini, la polemica sulla macellazione rituale halal in nome dei diritti degli animali e quella sui menù halal nelle mense scolastiche — e quella sull’«Islamo-gauchisme» e i valori Repubblicani.

Il termine «islamo-gauchisme» indica la collusione tra i gruppi di estrema sinistra e l’Islam politico: espressione nata per parlare dell’area antisionista nel conflitto israelo-palestinese per definire chi dall’antisionismo scivolava nell’antisemitismo. Una tribuna del filosofo Pierre-André Taguieff — «inventore» del termine nel testo La Nouvelle Judéophobie (2002) — su «Libération» ne rintraccia la storia, nata all’inizio degli anni Duemila: «L’espressione si limita a registrare un insieme di fenomeni osservabili, che permettono di avvicinare sinistra e islamisti: alleanze strategiche, convergenze ideologiche, nemici comuni, obiettivi rivoluzionari condivisi ecc.», che da una trentina d’anni, nella sua analisi, risultano apparsi.

Il concetto è polemico di per sé, per capirci: e non ha mai fatto l’unanimità in ambito accademico, al contrario. Anzi, nel linguaggio di uso comune è arrivato a essere l’accusa «standard» rivolta ai militanti di cause diverse (migrazione, antirazzismo…) la cui posizione avvalorerebbe il terrorismo islamico. Esistono, molto a destra se non all’estrema destra, sostenitori di questo termine.

Se dovessi fare un paragone azzardato, «Islamo-gauchisme» sta oggi alla Francia, come il dibattito sulla «cultura gender» sta all’Italia. Non perché si assomiglino, sia chiaro, ma per il tipo di sconvolgimento semantico che una definizione più o meno inventata prende nel discorso pubblico, e per lo iato stridente che c’è tra i concetti che voleva definire e l’uso che ne viene fatto.

Faccio una cronologia breve, perché la polemica, seppur vecchia, è tornata ora a far discutere.

Il 22 ottobre, ovvero 6 giorni dopo l’omicidio di Samuel Paty, il ministro dell’Istruzione, Jean-Michel Blanquer, su Europe 1 ha ricordato «i danni terribili che l’islamo-gauchisme» fa all’università.

Che c’entrano le due cose, signora mia? Il Governo, sulla scia di un percorso che la Francia ha intrapreso da anni, sta riflettendo oggi sul “separatismo”, fino al punto di farne una nuova legge (considerata una delle grandi leggi del quinquennio di Macron) che ha come scopo la lotta all’islamismo radicale, male che «cancrena l’unità nazionale».

Qualche giorno dopo la dichiarazione di Blanquer, una tribuna su Le Monde, firmata da universitari di area conservatrice denunciava nientepopodimeno che le «ideologie indigeniste, razzialiste e decoloniali che si sono annidate nelle università e che alimentano un odio anti-bianco e anti-francese». Il manifesto ha 100 firmatari, lo trovate qui.

Lo scorso 25 novembre due deputati di Les Républicains (LR, ex UMP, il partito di Nicolas Sarkozy), Julien Aubert e Damien Abad, hanno chiesto al Presidente dell’Assemblée nationale, Richard Ferrand, l’apertura di una missione di informazione sulle «derive ideologiche nel mondo universitario». Quali derive? «Le correnti islamo-gauchistes, tanto potenti nell’insegnamento superiore», e la «cancel culture» che secondo Aubert «censurerebbe la parola contraria o i comportamenti ritenuti offensivi».

Ci sono state polemiche sì, ma la cosa è passata un po’ a lato, quasi in silenzio. Chi prenderebbe sul serio una inchiesta sulle derive della ricerca universitaria in un Paese dell’Europa dell’Ovest nel 2020, signora mia?

«Chiedere un’inchiesta parlamentare su quello che gli accademici scrivono o sui loro dibattiti è senza precedenti in Francia. L’unico, di sinistra memoria, sono gli Usa del senatore McCarthy», dice su Le Monde Olivier Beaud, professore di diritto all’Università Paris-II-Panthéon-Assas. E invece.

Arriviamo al 14 febbraio 2021. La ministra dell’Insegnamento Superiore, della Ricerca e dell’Innovazione, Frédérique Vidal, ha espresso la volontà di voler aprire un’inchiesta sull’«l’islamo-gauchisme» all’università, «sulle correnti di ricerca su questi soggetti all’università, in modo che si possa distinguere cosa è ricerca accademica e cosa è, appunto, militantismo o opinioni». Tra i filoni in questione ci sono gli studi post-coloniali e intersezionali.

Vidal ha sostenuto che «l’islamo-gauchisme è un cancro per la società nel suo complesso, che l’università non ne è impermeabile» ha portato la proposta all’Assemblea Nazionale chiedendo un’inchiesta.

La ricerca sulle questioni razziali in Francia è in realtà marginale. Secondo dati pubblicati da Mediapart, dal 1960 al 2020 questi rappresentano il 2% del totale dei lavori prodotti. A processo ci sono quindi gli studi post-coloniali e intersezionali accusati di rimettere termini come «identità», «razza», «religione» e «sesso» in discussione, creando categorie che nutrono, a loro volta, il comunitarismo e la separazione del corpo sociale. Occorre spiegare che non si tratta di filoni di ricerca che intendono la razza come concetto biologico ma come costruzione sociale? Sì, certamente. Ma non basta. C’è in gioco la specificità del modello societario francese: siamo tutti uguali di fronte alla legge, l’intimo (origine, religione, orientamento ecc.) è una questione privata della quale lo Stato non si occupa, perché il suo ruolo è quello di garantire giustizia e equità.

Se è bellissimo sulla carta, nella realtà ci sono le macerie, perché la discriminazione è sì spesso basata su categorie socio-economiche che, guarda caso, altrettanto spesso si incastrano a perfezione su categorie sociali e culturali: la realtà fatta di persone che appartengono proprio a gruppi «minoritari», che hanno una religione e che la praticano, che abitano territori specifici, e le cui origini non sono «gauloises».

È alla politica di regolamentare questa questione? «Ci sono conflitti di scuola, generazionali, soprattutto un movimento di resistenza a conoscenze che provengono da altrove, da altre fonti epistemiche, da settori di riferimento della conoscenza che minacciano i metodi esistenti di validazione del sapere», dice su «Le Monde» Marie-Anne Paveau, professoressa di Scienze del linguaggio all’Università Sorbona-Parigi-Nord. Per Paveau il «Manifesto dei 100» sarebbe un «esempio di ripiegamento identitario dei ricercatori francesi di formazione “greco-latina”».

Lo storico Shlomo Sand ha fatto un parallelo con il termine «giudeo-bolscevico»: all’epoca «si voleva, per questo tramite, fare un legame tra la rivoluzione bolscevica e i pregiudizi giudeofobici», mentre oggi si tratterebbe di «militanti di sinistra che si alleano con i musulmani nell’idea di un progetto islamista».

Che il problema sia in realtà ben separato dallo shock successivo alla terribile morte di Samuel Paty lo dice anche un altro dettaglio: il 2 ottobre 2020, quindi prima dell’omicidio, Macron ha tenuto un discorso sul «separatismo islamista» nell’ottica del progetto di legge sul separatismo che ha cambiato nome in Projet de loi confortant le respect des principes de la République. In quell’occasione ha sostenuto che il discorso «postcoloniale» sarebbe colpevole di nutrire l’odio verso la République e fomentare il «separatismo». Come ha reagito l’Università?

Una petizione ha raccolto più di 22mila firme per chiedere le dimissioni della ministra. Tra i firmatari Thomas Piketty e tanti altri nomi illustri dell’Università e della ricerca francese. La petizione non è aperta a tutti, ma raccoglie le firme di ricercatori e ricercatrici, universitari e universitarie: in questo senso il risultato è abbastanza importante. Qualche giorno dopo questa iniziativa, un’altra è stata lanciata contro la «caccia alle streghe di Vidal»: si tratta questa volta da 200 universitari del mondo anglosassone (tra cui Judith Butler, Frederick Cooper, Arjun Appadurai e Ann Stoler). «Dopo aver approvato una legge sul “separatismo” che ha già aumentato la stigmatizzazione dei musulmani in Francia, il governo francese ora accusa gli accademici di polarizzare il dibattito pubblico. L’idea che gli insegnanti-ricercatori possano essere controllati con il pretesto di un "abuso militante della ricerca" è una minaccia diretta di censura che ci preoccupa», scrivono.

C’è un’altra questione, più stridentemente politica, cioè lo spostamento a destra della presidenza Macron: la Loi Sécurité Globale sulle forze di polizia; la legge sulla programmazione della ricerca che tocca l’insegnamento superiore; la riforma delle pensioni; la legge sul separatismo. Tra le altre cose. 

E poi, appunto, cosa non da poco: i posti chiave del governo sono andati a personalità della destra. Il Primo ministro, Jean Castex (ex Ump e poi Lr); Gérald Darmanin agli Interni (ugualmente ex Ump e poi Lr) che, en passant, è stato accusato di omofobia, stupro e stalking, o ancora Bruno Le Maire all’Economia. Tanto che la cosiddetta «ombra di Sarkozy» sull’esecutivo, viene citata anche a destra. L’equilibrio, in vista delle presidenziali è difficile: meno a destra di Le Pen, ma con il bisogno di recuperare l’elettorato che punta alla sicurezza, all’identità, alla nazione.

Per tornare allo specifico della questione: il termine «islamo-gauchisme» che ci racconta? Proprio questo slittamento a destra.

Un’analisi di David Chavalarias, direttore di ricerca al Cnrs ha studiato l’uso del termine sui social network e sul web grazie a uno strumento creato insieme al suo team per analizzare il militantismo online. L’analisi realizzata su 290 milioni di messaggi a connotazione politica a partire dal 2016, su 11 milioni di account. Il risultato? La maggior parte degli account dove il termine è stato usato sono di estrema destra, tra cui alcuni riconducibili all’alt-right.

Peggio ancora, l’attuale dibattito ha una conseguenza: l’uso da parte di altri funzionari politici, ministri, giornalisti (compresa la reazione ostile e quasi unanime dell’Università a queste proposte) sta, paradossalmente, legittimando un concetto che lo stesso milieu universitario non riconosce in quanto tale, perché non si tratta di una categoria scientifica, sociologica o politica riconosciuta.

«Secondo i nostri calcoli, i ministri e il governo sono riusciti a fare in quattro mesi, quello che l’estrema destra ha faticato a fare in oltre quattro anni: da ottobre 2020 il numero di tweet della sfera “standard”, cioè non politicizzata o non riconducibile a una corrente, politica ha menzionato “islamo-gauchisme” più di quanto fosse avvenuto tra il 2016 e il 2020. Possiamo definirla una performance».

 

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