In persiano fallire si dice shekast khordan, letteralmente «mangiare la sconfitta». La lingua di un popolo ha la potenza unica di veicolare emozioni tanto profonde quanto peculiari. L’amarezza è una di queste. Amara è infatti la sconfitta che il progetto riformista iraniano ha registrato alle elezioni presidenziali del 18 giugno. Doloroso è stato il colpo assestato dal sistema a un ideale che già alla base sembrava moribondo da anni. I vertici dello Stato hanno de facto escluso i riformisti in partenza. Quella di Ebrahim Raisi – ultraconservatore già a capo della Corte suprema – era una vittoria preparata a tavolino. Il 25 maggio, infatti, il Consiglio dei guardiani aveva squalificato tutti i possibili rivali che avrebbero potuto rendere la corsa elettorale competitiva, lasciando in campo solo sette candidati, nessuno di particolare brillantezza tra le file riformiste. Dunque, sulla carta, la vittoria di Raisi era pronta.

Restavano due incognite: l’affluenza e l’imprevedibile reazione popolare. Su entrambi i fronti ha dominato – apparentemente – l’astensione. Meno della metà degli iraniani ha votato: solo il 48,8% è andato alle urne. Il resto dell’elettorato – soprattutto quello della base riformista disillusa – sembra essere rimasto intrappolato in una paradossale indolenza attiva.

L’apatia elettorale coincide con l’anestesia politica, stando ai risultati delle ultime presidenziali? Il trionfo dell’astensionismo potrebbe suggerire una risposta affermativa, ma troppo superficiale. Il rifiuto del diritto di voto, seppur senza un aperto movimento di boicottaggio, ha lanciato un evidente segnale di rottura. La non-scelta, che potrebbe essere immediatamente assimilata all’apolitica tout court, cela in realtà una critica (finora pressoché silente nello spazio pubblico) a un sistema politico escludente. L’apatia elettorale delle presidenziali 2021 replica a un intero sistema, quello della Repubblica Islamica, che un monolite politico però non è. Il paradosso di questa indolenza risiede esattamente nella sua politica in potenza.

Se dall’alto l’apparato della Repubblica islamica ha lasciato che il riformismo arrivasse moribondo a questa tornata elettorale per via dei colpi inferti dagli ultraconservatori negli ultimi vent’anni, dal basso è stata la sua stessa base elettorale a segnarne le sorti

Il fervore latente richiama un cambio di paradigma. Imprimere uno scarto significherebbe allargare le maglie dei processi di inclusione politica in un sistema che ha rifiutato – la Storia iraniana ci insegna – il progetto riformista di natura parlamentare figlio della presidenza Khatami (1997-2005). Se dall’alto l’apparato della Repubblica islamica ha lasciato che il riformismo arrivasse moribondo a questa tornata elettorale per via dei colpi inferti dagli ultraconservatori negli ultimi vent’anni, dal basso è stata la sua stessa base elettorale a segnarne le sorti. L’apatia dello storico elettorato riformista e delle nuove generazioni va letta attraverso una logica punitiva. Da un lato si è imposto il malcontento contro il fallimento delle politiche economiche del presidente uscente, il pragmatico Hassan Rouhani (sostenuto dai riformisti), in un contesto già straziato dalle sanzioni statunitensi che hanno impoverito proprio la classi media – primo interlocutore elettorale dei riformisti. Dall’altro c’è la delusione della componente più radicale che rimprovera ai riformisti di non essersi saputi smarcare da un discorso egemonico di esclusione politica, dissipazione della lotta di classe e atrofizzazione del conflitto sociale.

Per restituire complessità a questo rigetto bisogna guardare attraverso una prospettiva che si allunga sino alla fine degli anni Novanta e alle speranze dei primi Duemila, quando il presidente iraniano Mohammad Khatami faceva risuonare nello stesso discorso per la prima volta in Parlamento le parole «società civile», «partecipazione», «Stato di diritto», «diplomazia culturale». Khatami innescava allora i processi sinergici che avrebbero visto circolare il potere attraverso il corpo sociale iraniano per mezzo delle classi medie istruite, dei giovani, delle donne, degli intellettuali, fino a quel momento rimasti più ai margini nella retorica della Repubblica islamica nata dalla rivoluzione (politicamente polifonica) del 1979. Il presidente riformista si avventurava a raccontare al mondo un Paese più complesso di un’entità politica unicamente repressiva ed onnipotente dove i cittadini sono soggetti passivi o mere vittime. L’alba del nuovo millennio riformista serbava una conseguenza inaspettata del progetto che mirava a riformare il sistema dall’interno. I figli dei rivoluzionari della prima ora uscivano fuori dallo schema rigido disegnato per loro dallo stesso sistema che li aveva partoriti, mentre i conservatori lavoravano su due fronti. Da un lato, provavano a delegittimare Khatami sul piano politico sabotando ogni tentativo di riforma. Dall’altro, galvanizzavano le classi popolari più povere istigandole contro il presidente riformista reo di parlare solo alla classe media.

Il populismo conservatore del presidente Mahmoud Ahmadinejad è figlio di questi processi che sono poi sfociati nelle proteste del Movimento verde del 2009 al grido di «dove è il mio voto?» contro sospetti brogli elettorali per la rielezione di Ahmadinejad nella corsa contro il riformista Mir-Hossein Moussavi.

Se la repressione ha fermato con la violenza le manifestazioni del 2009, a dividere il movimento sono state le sue fratture interne e l’incapacità di rigenerarsi politicamente per potere sopravvivere a un contesto ostile. I riformisti – lasciati acefali, monitorati e messi politicamente all’angolo – sono entrati in crisi all’interno di un sistema che si sono rivelati incapaci di trasformare. Al di là dei metodi coercitivi usati dalla Repubblica islamica per indebolirlo, il riformismo ha fallito nel tempo per aver disatteso le aspettative di chi sperava in un incontro tra le istanze dal basso e la politica parlamentare e per aver mancato all’appuntamento che chiedeva di ri-immaginarsi politicamente.

Al di là dei metodi coercitivi usati dalla Repubblica islamica per indebolirlo, il riformismo ha fallito nel tempo per aver disatteso le aspettative di chi sperava in un incontro tra le istanze dal basso e la politica parlamentare e per aver mancato all’appuntamento che chiedeva di ri-immaginarsi politicamente

Immaginazione politica è il contraltare dell’apatia elettorale dell’Iran al giro di boa dopo le presidenziali 2021. Le sanzioni e la diplomazia punitiva degli Stati Uniti di Donald Trump hanno sfiancato la popolazione e radicalizzato l’apparato verso destra, rafforzando i Pasdaran da un punto di vista sia economico che militare, mentre il Covid-19 esponeva le fragilità e la mala gestio della crisi da parte dell’establishment. La Repubblica islamica a guida Raisi promette una cosa certa, oltre a una retorica più oltranzista a parole e di sostanziale continuità nella politica economica: tutte le istituzioni chiave – dalla presidenza passando per il Parlamento e i vertici militari – sono ora nelle mani dei conservatori. Ma non è detto che questo non crei – come la storia iraniana post-rivoluzionaria insegna – dei cortocircuiti di legittimità politica che potrebbero imporre la rinegoziazione degli spazi di rappresentanza. Paradossalmente, questo contesto serba in sé il potenziale per riattivare il dibattito politico interno, canalizzare le istanze politiche disperse in contesti intellettuali finora marginali, privati o online, e riarticolarle in un progetto politico che parte dall’interno.