L’incertezza è un segno della democrazia. Lo mette in luce il politologo tedesco-americano Jan-Werner Müller nel suo libro appena uscito: Democracy Rules. Freedom, Equality, Uncertainty. Un altro politologo, Adam Przeworski, semplificò questa incertezza con una formula: nelle democrazie i partiti perdono le elezioni. Proprio quello che si è verificato alle elezioni federali del 26 settembre scorso.

Sin dall’inizio era chiaro che non sarebbero state simili ad alcuna altra elezione precedente. Per la prima volta dal 1949 non entrava nella disputa elettorale il cancelliere o la cancelliera in carica. Le novità non finivano qui: dal 1949 è sempre stato chiaro sin dall’inizio che a indicare il capo di governo sarebbe stata l’Union di Cdu e Csu o la Socialdemocrazia. Per la prima volta, invece, anche questa era una questione aperta. E ancora: al candidato socialdemocratico Olaf Scholz non veniva data alcuna credibile possibilità; l’elezione sarebbe stata decisa tra nero e verde, tra Armin Laschet e Annalena Baerbock. E per finire, entrambi, dopo essersi contesi il cancellierato, avrebbero dovuto formare una nuova (grande) coalizione per governare insieme la Germania.

Questi richiami sono indispensabili perché, come è noto, tutto è andato diversamente. I Verdi non sono riusciti a spodestare i socialdemocratici come guida del centrosinistra, senza pertanto riuscire a emarginare definitivamente la Spd. Contrariamente alle aspettative, l’Union non è riuscita a diventare il partito più forte: Laschet non è emerso come successore della Merkel, ma come il grande sconfitto delle elezioni. Come si spiega questo sorprendente risultato elettorale?

Gli osservatori elettorali – siano essi giornalisti, sondaggisti o politologi – e i portavoce dei partiti attribuiscono l’esito elettorale a una tendenza generale e a effetti a breve termine. La prima consiste nella volatilità e nella crescente instabilità delle preferenze dell’elettorato. Esse consentono sensibili fluttuazioni e cambiamenti altrettanto rapidi nella preferenza del voto senza che si possa prevederli. Gli effetti a breve termine sono stati un accumulo di errori evitabili: da curricula falsificati, libri scritti frettolosamente e entrate non segnalate al Bundestag (nel caso di Baerbock), a decisioni sulla candidatura a cancelliere che non sono state accettate nei loro ranghi (nel caso sia di Baerbock sia di Laschet) a sfortunate apparizioni nel disastro dell’alluvione o nei giri televisivi (per il solo Laschet).

Ma il principale errore dell’Union è stato quello di non aver rovesciato per tempo Angela Merkel: dopo le pesanti sconfitte in Baviera e in Assia nel 2018, ha dovuto rinunciare alla presidenza del partito, ma è rimasta cancelliera. Da allora l’Union non è più uscita da una vera e propria crisi di leadership, è rimasta vaga nelle sue dichiarazioni politiche e non ha mandato in campagna elettorale un nuovo candidato che potesse disporre anche della forza di una carica ufficiale.

Fatale ai Verdi è stata, invece, la loro ingenuità di affidarsi esclusivamente al voto di tendenza. E tuttavia la richiesta per un cambiamento o, meglio, per una radicale trasformazione della politica climatica ancora non determina del tutto il risultato finale delle elezioni. Il voto è una questione di fiducia: molti elettori non erano convinti che la candidata verde alla carica di cancelliera riuscisse a ottenere al Cremlino risultati simili a quelli che avrebbe raggiunto nelle conferenze internazionali sul clima.

Le attuali interpretazioni del risultato elettorale si incentrano tutte sul ruolo dei capilista (Spitzenkandidaten). Per quanto riguarda il candidato cancelliere socialdemocratico questo significa: la decisione di candidare Olaf Scholz è stata presa per tempo, era ed è rimasta indiscussa nel suo partito. Il candidato ha mostrato una determinazione straordinaria, era l’unico che all’inizio credeva ancora alla vittoria mentre nessuno era disposto a scommetterci. Facendo sfoggio della sua competenza ha iniziato gradualmente a brillare molto più degli altri due come il candidato più stimato, riuscendo così a risollevare i pessimi sondaggi del suo partito e a spostare infine anche i temi della campagna elettorale: se all’inizio tra le questioni degli elettori stavano in cima la lotta ai cambiamenti climatici e la ricostruzione dell’economia dopo la pandemia, alla fine c’era anche la giustizia sociale.

Se all’inizio tra le questioni degli elettori stavano in cima la lotta ai cambiamenti climatici e la ricostruzione dell’economia dopo la pandemia, alla fine c’era anche la giustizia sociale

Come sempre anche i commentatori hanno soppesato i singoli momenti per le loro analisi, così un fatto è rimasto indiscutibile: mai l’influenza dei media insieme a quella degli istituti di ricerca è stata così rilevante come in questa tornata elettorale. Già a causa della pandemia la vita di partito si era intorpidita pressoché ovunque: le assemblee degli iscritti si tenevano a malapena, la campagna elettorale per le strade non decollava e i comizi dei partiti attiravano poche persone. Al contrario sia i social media sia i classici strumenti di informazione hanno costituito uno spazio di risonanza politico decisivo.

Potremmo chiederci a questo punto quale politica porterà avanti una coalizione «semaforo», vale a dire un governo composto da Spd, Verdi e Fdp. Ma così tralasceremmo una questione importante che viene sempre presa in considerazione, anche se non apertamente. E questo ci porta alle tendenze a lungo termine. Guardando ai suoi otto anni di presidenza, Barack Obama ha sottolineato con stupore che ogni giorno discuteva di questioni controverse, che infiammavano l’opinione pubblica, ma le tendenze di lungo periodo non sono mai diventate oggetto di un approfondito dibattito pubblico. Si è discusso di ogni mossa tattica, mai della rotta strategica. Ora, certamente, non può dirsi lo stesso in Europa e, naturalmente, non nella «terra dei poeti e pensatori». Ma occorre tentare perlomeno di abbozzare quale sia stato il significato storico di queste elezioni e perché la politica tedesca ne sarà cambiata profondamente.

Primo: l’idea dei partiti di popolo (Volksparteien), con la quale è stato spiegato il successo della Repubblica federale rispetto al fallimento della Repubblica di Weimar, è morta. Non c’è più in Germania un partito di popolo socialdemocratico o uno cristianodemocratico, perlomeno non nella forma in cui li abbiamo conosciuti.

Secondo: anche in Germania i risultati elettorali producono configurazioni poco chiare. Diversamente dal passato, le elezioni non contribuiscono a chiarire i rapporti politici. Sono i politici, tramite lunghe trattative, a determinare coalizioni fra partiti e non i militanti con la campagna elettorale o gli elettori tramite le elezioni. Potrebbero sembrare osservazioni banali perché corrispondono a una realtà che esiste da tempo in molti Paesi europei. Tuttavia, sollevano una serie di questioni strategiche non risolte. Sarebbe opportuno, invece, prestarvi attenzione per non essere sorpresi di quello che un giorno, improvvisamente, è diventato realtà politica.

L’idea delle Volksparteien è sempre stata connessa alla necessità di definire nei partiti compromessi stabili tra diversi interessi e ideologie; grazie a questa capacità di integrazione per i partiti era più facile definire dei compromessi fra loro. Se i contrasti tra i vari interessi diventano troppo rigidi – siano essi di natura economica, sociale o ideologica – producono anche il rifiuto della responsabilità politica. Detto altrimenti: la tendenza di lungo periodo che premia i piccoli partiti rafforza quella verso partiti di interessi determinati, di ambienti specifici e di visioni del mondo. Con una simile tendenza i tedeschi non hanno avuto una buona esperienza durante la loro prima democrazia. Essa raffigura politicamente una frammentazione sociale in milieu, bolle ideologiche e gruppi di interessi che difficilmente può essere ricomposta. E questo determina anche la diminuzione del consenso per le decisioni politiche. Non occorre evocare i fantasmi del passato, ma non si può negare che in futuro trattative più complicate dovranno superare contrasti che si profilano più profondi. Questo contraddice la richiesta degli elettori di trasparenza, chiarezza e riconoscibilità nella politica: c’è da temere che verso di essa il malcontento aumenterà.

Le elezioni federali hanno spostato, inoltre, il problema della costituzione del campo asimmetrico da sinistra a destra, che ha in Germania una lunga storia. Com’è noto non si riuscì a superare la divisione del movimento dei lavoratori fino a quando il partito comunista era tenuto al guinzaglio da Mosca. Dopo il 1989 un divario profondo, politico e psicologico, tra la Spd e la Pds/Linkspartei/Linke ha fatto in modo che la sinistra, pur disponendo di una maggioranza numerica, non potesse diventare maggioranza politica al Bundestag.

Dopo il 1989 un divario profondo, politico e psicologico, tra la Spd e la Pds/Linkspartei/Linke ha fatto in modo che la sinistra, pur disponendo di una maggioranza numerica, non potesse diventare maggioranza politica al Bundestag

Dopo che Alternative für Deutschland si è stabilizzata, almeno temporaneamente, nel sistema politico, le maggioranze di destra non possono più, matematicamente, diventare opzioni politiche. Ecco perché si pone la questione della forma che la destra politica dovrà assumere. Questione che va ben oltre la richiesta di rinnovo del personale nella Cdu: un altro cambio al vertice non farà splendere il sole in casa democristiana. Che cosa significa una «riorganizzazione radicale» della Cdu, perché nulla sia lasciato intentato come chiede il presidente dell’organizzazione giovanile? Che direzione dovrebbe prendere il «lavoro tematico» chiesto dal liberal-conservatore Friedrich Merz?

Domande che ci portano allo spettro del nazionalismo. Il fondamento ideologico del populismo di destra, che tanto affligge i partiti democristiani, consiste nella rinascita del nazionalismo etnico. Dopo il 1945 non c’è stato nella Germania occidentale un partito di destra di successo che facesse precedere le posizioni nazionaliste agli sforzi per l’integrazione europea. E tuttavia AfD continuerà a giocare la carta del nazionalismo. E l’Union, in un serio processo di rinnovamento, non riuscirà ad aggirare questo tema con formule di compromesso, non foss’altro perché sono in ballo le sue tradizioni europee e di politica estera.

Nel campo di sinistra, la Linke ha bisogno di un enorme processo di chiarificazione politica. AfD le contesta il ruolo di partito regionale della Germania dell’Est e a livello nazionale è sceso al di sotto della soglia del cinque percento. Rientra al Bundestag con un gruppo parlamentare solo grazie alla conquista di mandati diretti in tre circoscrizioni. Diviso tra essere opposizione radicale e un partito riformatore, adesso rischia addirittura una scissione. Nel voto parlamentare sull’operazione di evacuazione della Bundeswehr in Afghanistan, il gruppo parlamentare si è spaccato: la maggioranza si è astenuta ed è stata aspramente attaccata e considerata irresponsabile dalla Csu sino ai Verdi. Il suo vero problema, però, è stato non riuscire a mantenere una posizione salda: la maggioranza del gruppo si è astenuta, alcuni hanno votato a favore e altri contro. Proprio questa imprevedibilità, che segue le divisioni delle correnti interne, rende la Linke non solo incapace di essere parte di coalizioni di governo ma la conduce anche a una crisi nella quale è in gioco la sua stessa esistenza.

Se – come negli Stati federali e nei comuni – la Linke si orienterà verso un progetto riformatore, allora si porrà la domanda sul perché in Germania dovrebbero esistere ancora due partiti socialdemocratici. Probabilmente, però, il partito continuerà a non decidere, aspettando di capire se potrà beneficiare da un’opposizione di sinistra a un governo retto da una coalizione «semaforo». Probabilmente no, dato che la forza di opposizione più forte sarà l’Union.

Ciò dimostra anche che il rimodellamento sotterraneo del panorama politico ha da tempo portato a spostamenti tettonici, mentre in superficie si pretende ancora che i terremoti siano soltanto normali fenomeni meteorologici. 

 

[Traduzione di Fernando D'Aniello]