Nei giorni scorsi alcuni giornali europei – «The Guardian», «Der Tagesspiegel», «il manifesto» – hanno pubblicato congiuntamente l’elenco ufficiale, su 56 pagine, con i nomi di 34.361 persone morte nel tentativo di attraversare il Mediterraneo negli ultimi 15 anni. Sono indicati anche la causa del decesso e, quando possibile, i nomi. Ma le cifre vere del numero complessivo di chi ha perso la vita per raggiungere l’Europa non saranno mai note. Soltanto nella giornata di venerdì dalla Guardia costiera libica è giunta notizia dell’annegamento di oltre cento persone, che  per le stime ufficiali potrebbero non avere mai un’identità.

Negli stessi giorni il governo italiano agiva su due fronti. Uno di sostanza, almeno nelle intenzioni dichiarate; uno di propaganda. Sostenendo di «alzare la voce» per riuscire là dove nella scorsa legislatura i governi avevano fallito, vale a dire ottenere una reale condivisione con i partner europei delle quote di migranti che arrivano sulle coste italiane. Lo schema è noto: le coste italiane sono coste europee, chi arriva in Italia arriva in Europa. E dunque è l’Europa intera a doversene fare carico. Tutte le dichiarazioni, e le azioni concrete che le hanno affiancate – la vicenda delle navi Aquarius e Lifeline, la annunciata chiusura dei porti, i continui attacchi all’operato delle Ong – sono apparse legate a una stessa logica. A nulla sono serviti gli inviti giunti da più parti di osservare, per una volta, la realtà. Da un lato il forte calo degli arrivi – già in atto da mesi, dopo l’avvio di una politica precisa da parte dell’ex ministro Minniti in accordo con la Libia, o almeno con quella parte della Libia con cui uno Stato può pensare di trovare intese minimamente affidabili. Dall’altro le richieste di non ignorare l’attuale saldo demografico italiano, con uno sguardo all’apporto economico della popolazione di origine straniera e alla sostenibilità di un sistema previdenziale che dovesse, progressivamente, vedere ridotta la loro quota di contributori.

Tutto ciò non ha inciso minimamente sulle scelte che hanno caratterizzato l’azione del governo italiano nelle sue prime settimane di vita. L’atteggiamento dell’Italia nei confronti dei partner europei si è visto per la prima volta in occasione del vertice del G7 in Canada, dove il primo ministro Conte – da ultimo arrivato – si è lasciato andare a dichiarazioni di sostegno all’ipotesi di rivedere o cancellare le sanzioni alla Russia, sulla scia delle posizioni del presidente americano Donald Trump. Sanzioni peraltro poi confermate, con l’accordo dell’Italia, al Consiglio europeo tenutosi lo scorso 28 giugno, quando il governo è stato messo alla prova per la seconda volta.

Un’occasione particolarmente delicata, dove l’Italia ha minacciato di porre il proprio veto al fine di bloccare le conclusioni della prima parte del vertice. Una mossa criticata da molti dei partner presenti, con siparietti indegni di una riunione di così alto livello.

La riunione, che ha prodotto il Comunicato ufficiale disponibile sul sito del Consiglio, è subito stata salutata da Conte come un successo (“da questo Consiglio esce un’Europa più responsabile e più solidale. L’Italia non è più sola”). La realtà è emersa quasi subito, e questa volta non riguarda solo il nostro Paese ma l’intero continente. Per l’Italia il risultato del vertice è, nei fatti, fallimentare. È vero, le premesse, legate non solo ai rapporti tra Paesi ma anche alle tensioni che si registrano all’interno di alcune coalizioni, in particolare in Germania, lasciavano presagire una rottura forse insanabile. Un esito del genere avrebbe rischiato di condurre l’intero progetto europeo su una china difficilissima da risalire. E così non è stato. Ma i risultati non possono essere considerati se non la conferma, su più punti, dell’attuale situazione di stallo in cui l’Unione europea si trova sin dalla cosiddetta “emergenza migranti” del 2015. Tutti hanno vinto e dunque nessuno ha vinto. Certamente non l’Europa.

La proposta di centri di sbarco in Nord Africa (definiti “piattaforme di sbarco regionali”) dove “sistemare” i carichi di migranti soccorsi in mare dovrebbe, che dovrebbe ridurre al minimo i tentativi di attraversare il Mediterraneo, è infatti di difficilissima applicazione. Per ragioni legali e umanitarie, innanzitutto. Nonostante un consenso di massima espresso dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) e dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom) per la creazione di questi centri da parte europea. Tuttavia restano da trovare i Paesi disposti ad accoglierli. Il Marocco, ad esempio, tramite il ministro degli Esteri Nasser Bourita, ha subito respinto l’ipotesi che possano essere realizzati sul proprio territorio. Servono dunque sia l’accordo di Paesi terzi sia il pieno rispetto diritto internazionale: quanto documentato a più riprese sugli attuali centri detentivi in Libia mostra tutt’altro.

Vengono poi i “centri sorvegliati” istituiti negli Stati membri, per prevenire i movimenti secondari:

“Nel territorio dell’Ue coloro che vengono salvati, a norma del diritto internazionale, dovrebbero essere presi in carico sulla base di uno sforzo condiviso e trasferiti in centri sorvegliati istituiti negli Stati membri, unicamente su base volontaria; qui un trattamento rapido e sicuro consentirebbe, con il pieno sostegno dell’Ue, di distinguere i migranti irregolari, che saranno rimpatriati, dalle persone bisognose di protezione internazionale, cui si applicherebbe il principio di solidarietà. Tutte le misure nel contesto di questi centri sorvegliati, ricollocazione e reinsediamento compresi, saranno attuate su base volontaria, lasciando impregiudicata la riforma di Dublino”.

È l’idea lanciata da Macron e Sánchez. Saranno centri “chiusi” ma creati “su base volontaria” da parte dei singoli Paesi. Nei fatti, restano esposti i Paesi di primi approdo, Italia, Spagna e Grecia: un passo indietro rispetto alla bozza di riforma del regolamento Dublino uscita dal Parlamento europeo l’autunno scorso.

È poi da sottolineare, ancora una volta, la questione della distinzione che si dovrebbe ottenere per separare chi ha più probabilità di ottenere asilo e chi no. Un tema su cui sono state spese molte parole. Come dimostra l’esperienza di questi anni, tale distinzione è difficilissima da mettere in pratica, almeno se si intendono rispettare i principi del diritto internazionale.

Tutto questo restando in vigore il principio, sancito dal regolamento di Dublino, secondo cui il Paese di primo approdo è responsabile del trattamento delle domande di asilo. Era questo il punto su cui giocava la credibilità di Conte nel battere i pugni sul tavolo: la richiesta dell’Italia era di superare questo principio. Ma il Consiglio nelle deliberazioni finali si è limitato a confermare che “l’Ue resterà al fianco dell’Italia e degli altri Stati membri in prima linea”. C’è forse da essere soddisfatti?

Infine, viene la questione della cooperazione con l’Africa: l’istituzionalizzazione di un motto fin troppo sentito in questi anni, “aiutiamoli a casa loro”. Al momento vengono stanziati 500 milioni per il Trust Fund che serve a finanziare la guardia-costa libica, che sono però presi, paradossalmente, proprio dal Fondo europeo di Sviluppo per i Paesi poveri. Al riguardo, il documento cita anche il rafforzamento della partnership con la Turchia di Erdoğan che ha previsto un finanziamento europeo per i “centri di raccolta” dei migranti sul territorio turco per complessivi sei miliardi di euro.

Al di là degli entusiasmi italiani della prima ora, come abbiamo visto del tutto fuori luogo, Macron ha così commentato i risultati del vertice: “L’Europa vuole essere all’altezza dei suoi diritti, della sua storia e in particolare della protezione dei più deboli”. Se questo fosse davvero il nuovo obiettivo dell’Unione ci sarebbe di che rallegrarsi. Ma il cambiamento non passa attraverso le parole. E l’Europa – con lo scontro tra Angela Merkel e il suo ministro dell’Interno Horst Seehofer più che mai acceso – deve continuare a confrontarsi con la realtà di un fenomeno epocale che sinora ha dimostrato di non sapere affrontare e che rischia di lacerarla irrimediabilmente. Mentre la conta dei decessi, complici le politiche di ostilità nei confronti di chi opera in mare, non accenna a rallentare. Ma di questo i leader europei, e gran parte delle opinioni pubbliche, sembrano quasi non occuparsi. Chi volesse davvero superare Dublino, dovrebbe supportare la bozza di riforma uscita dal Parlamento, magari usandola come una piattaforma per un accordo politico con alcuni Paesi (sul modello dell’Ue a più velocità), per isolare il blocco di Visegrad. Per ora invece la priorità resta quella di sventolare proposte irrealizzabili da dare in pasto all’opinione pubblica.

 

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