1. Quattro diversi procedimenti giuridici si intrecciano nella vicenda dell’autonomia regionale differenziata. Nell’ordine cronologico (ma non logico) in cui sono stati avviati:

a) le trattative tra lo Stato e le regioni che per prime hanno avanzato la richiesta di differenziazione (Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna), volte a definire l’intesa sulle nuove competenze da attribuire alle regioni stesse;

b) la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) inerenti ai diritti civili e sociali che devono essere garantiti uniformemente su tutto il territorio nazionale;

c) la specificazione delle scarne previsioni costituzionali (art. 116, c. 3, Cost.) sull’iter attraverso cui giungere all’entrata in vigore delle intese Stato-regioni;

d) l’individuazione delle risorse da attribuire alle regioni per l’esercizio delle nuove competenze.

Si tratta di un ordine non logico, perché si sarebbero, anzitutto, dovuti individuare i livelli essenziali delle prestazioni (Lep), come previsto dalla Costituzione sin dalla riforma del 2001 (punto b); quindi stabilire la procedura generale attraverso cui assegnare alle regioni maggiore autonomia (punto c); infine addivenire all’attribuzione delle nuove competenze, e dei relativi finanziamenti, alle regioni interessate (punti a e d).

2. Se infatti partiamo dai Lep, l’art. 117, c. 2, lett. m, Cost., riformato nel 2001, prevede che tali livelli siano definiti con legge statale per tutti i diritti civili e sociali, al fine di fissare lo standard minimo delle prestazioni da garantire, nel rispetto del principio di uguaglianza, su tutto il territorio nazionale (così limitando la differenziazione regionale all’eventuale previsione di prestazioni ulteriori rispetto al minimo).

Nei fatti, definire i Lep si è rivelato più arduo del previsto, dal momento che non tutti i diritti costituzionali sono “scomponibili” in prestazioni misurabili. E anche là dove sono stati fissati – per il diritto alla salute (lea: livelli essenziali di assistenza) – il risultato è stato che, lungi dal costituire il livello minimo al di sotto del quale non andare (come fossero un “pavimento”), si sono, in realtà, rivelati un obiettivo verso il quale tendere (l’equivalente di un “tetto”). Lo confermano i dati più recenti, per i quali ben dieci regioni su venti non riescono a soddisfare tali parametri essenziali.

La legge di bilancio 2023 (art. 1, c. 791-805) prevede ora che parte dei Lep mancanti sia definita entro un anno tramite un procedimento che, anziché basarsi sulla legge parlamentare, è essenzialmente incardinato sul ruolo del governo. Al centro di tutto sarà, infatti, una Cabina di regia, composta dai ministri interessati e dai presidenti delle associazioni delle regioni, delle province e dei comuni, a cui è attribuito il compito di individuare i Lep non per tutte le materie, ma soltanto per quelle che saranno ritenute «riferibili ai Lep».

In una prima fase di sei mesi, la Cabina di regia dovrà effettuare una ricognizione delle funzioni statali e della relativa spesa storica, individuare le materie riferibili ai Lep e, infine, determinare i Lep (a) nell’ambito degli stanziamenti di bilancio vigenti (cosa che esclude in radice ogni perequazione) e (b) sulla base delle ipotesi formulate dalla Commissione tecnica per i fabbisogni standard (il che significa che saranno bilancio e fabbisogni a determinare i Lep, mentre la sentenza n. 275/2016 della Corte costituzionale sancisce, al contrario, che deve essere «la garanzia dei diritti incomprimibili a incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione»).

In una seconda fase, sempre di sei mesi, la Cabina di regia dovrà procedere a predisporre gli schemi dei decreti del presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm) che determinano i Lep e i relativi costi e fabbisogni standard; su tali schemi dovranno esprimersi la Conferenza unificata (Stato-regioni-enti locali) entro 30 giorni e – sulla base di una previsione aggiunta dal Ddl Calderoli (dunque, non ancora in vigore) – il Parlamento entro 45 giorni.

Decorsi tali termini (e a prescindere dall’effettivo raggiungimento dell’intesa con la Conferenza unificata e dall’espressione del parere delle Camere), si passerà alla fase conclusiva, segnata dall’adozione dei Dpcm da parte del presidente del Consiglio dei Ministri, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri stesso.

E se la Cabina di regia non dovesse rispettare i tempi? Spetterà allora al Governo nominare un Commissario incaricato di compiere i passaggi mancanti, eccetto l’adozione finale dei Dpcm, che rimane prerogativa del presidente del Consiglio. Potrebbe dunque accadere che, laddove la Costituzione prevede che intervenga una legge del Parlamento, a decidere tutto sia invece un Commissario governativo: come se definire il contenuto essenziale dei diritti costituzionali spettante a tutti equivalesse a ricostruire un ponte.

3. Passando alla procedura attraverso cui assegnare alle regioni maggiore autonomia, è all’art. 116, c. 3, Cost. modificato nel 2001 che occorre fare riferimento. Tale disposizione si limita a prevedere che «ulteriori forme e condizioni particolari» di autonomia possano essere attribuite alle regioni ordinarie con legge statale approvata dalle Camere a maggioranza assoluta, sulla base dell’intesa raggiunta tra lo Stato e la regione interessata in esito a una trattativa avviata su iniziativa della regione.

Il nodo è costituito dal rapporto tra intesa e legge: posto, infatti, che la trattativa volta al raggiungimento dell’intesa è condotta dal Governo, per conto dello Stato, e dalla Giunta regionale, per conto della regione, quale potere decisionale residua al Parlamento? Potranno le Camere modificare l’intesa raggiunta dai due esecutivi o dovranno limitarsi a scegliere se respingerla o approvarla?

Difficile immaginare che all’organo preposto alla realizzazione dell’interesse generale sia inibito esercitare poteri decisionali su una questione che, riguardando la riduzione delle competenze dello Stato sul proprio territorio, investe pienamente l’interesse generale

Le regioni spingono per la seconda soluzione, temendo che il Parlamento possa finire col dare alla legge un contenuto loro sgradito. Ma è davvero possibile ridurre il ruolo del Parlamento alla mera ratifica di quanto deciso da altri? Difficile immaginare che all’organo preposto alla realizzazione dell’interesse generale sia inibito esercitare poteri decisionali su una questione che, riguardando la riduzione delle competenze dello Stato sul proprio territorio, investe pienamente l’interesse generale.

Eppure, è esattamente quel che fa il disegno di legge Calderoli, sposando la posizione delle regioni. Secondo tale provvedimento, infatti, una volta raggiunto uno schema d’intesa tra le delegazioni trattanti per conto dei due organi esecutivi, al Parlamento spetta esprimersi entro 60 giorni approvando «atti di indirizzo» di cui il Governo terrà conto nel definire il contenuto definitivo dell’intesa, eventualmente dopo un’ulteriore fase di trattativa con la regione. A quel punto, l’intesa sarà formalmente sottoscritta dallo Stato e dalla regione e trascritta in un disegno di legge d’iniziativa governativa che alle Camere spetterà approvare a maggioranza assoluta o respingere in blocco, senza possibilità di introdurre emendamenti. Un mero potere di ratifica, appunto.

Il Ddl Calderoli aggiunge che l’attribuzione delle nuove competenze alle regioni dovrà essere preceduta dall’approvazione dei Lep (art. 1, c. 2). E tuttavia, poiché è contenuta in una legge ordinaria, tale previsione non avrà la forza di vincolare le pariordinate leggi ordinarie di recepimento delle intese (molto semplicemente: queste faranno eccezione a quella, derogandola). Dunque, l’approvazione delle intese con le regioni – a partire da quelle con Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna – potrà comunque avvenire senza che siano prima definiti i Lep.

4. Venendo, infine, alle richieste sinora avanzate dalle regioni, il Ddl Calderoli fa salvo il percorso compiuto dalle tre regioni “apripista”, la cui peculiarità – allarmante, in un ordinamento democratico – è che tutte le trattative sono state svolte, e rimangono avvolte, nel segreto. Formalmente sappiamo soltanto che nel febbraio del 2018 il governo Gentiloni, a tre giorni dalle elezioni politiche, ha firmato con ciascuna delle tre regioni un pre-accordo volto a fissare le coordinate essenziali cui improntare le successive trattative. Sappiamo anche, ma solo grazie alle rivelazioni del sito Roars.it, che nel febbraio e nel maggio del 2019 il governo Conte I ha stipulato separatamente con le medesime regioni una bozza d’intesa riguardante il dettaglio delle competenze oggetto di trasferimento. Sappiamo, infine, da fonti giornalistiche, che nel febbraio del 2020, sotto il governo Conte II, le bozze d’intesa sono state integrate con nuove materie e che nel marzo del 2022 la relazione del Gruppo di lavoro sull’autonomia differenziata nominata dal governo Draghi per fare il punto sulla situazione non è stata pubblicata perché critica nei riguardi delle bozze d’intesa già raggiunte.

Nel marzo del 2022 la relazione del Gruppo di lavoro sull’autonomia differenziata nominata dal governo Draghi per fare il punto sulla situazione non è stata pubblicata perché critica nei riguardi delle bozze d’intesa già raggiunte

Tra le competenze che passerebbero alle tre regioni: la sanità, con riguardo all’organizzazione degli enti, alla gestione e formazione del personale, all’impiego delle risorse, ai farmaci; la scuola, con la creazione di un sistema d’istruzione regionale parallelo a quello statale (Emilia-Romagna) e la responsabilità del rapporto di lavoro con gli insegnanti (Veneto e Lombardia); l’università e la ricerca, da potenziarsi con appositi fondi speciali; tutti i musei presenti sul territorio regionale; l’organizzazione della giustizia di pace; le politiche attive e passive del lavoro; l’acquisizione di strade e ferrovie al demanio regionale (Veneto e Lombardia) o il governo integrato del sistema dei trasporti (Emilia-Romagna); il controllo di porti e aeroporti (Veneto e Lombardia); la protezione civile; la regolazione e l’amministrazione del paesaggio; il governo del territorio, specie riguardo alla semplificazione di permessi e controlli edilizi; la gestione del ciclo dei rifiuti; la produzione, il trasporto e la distribuzione di energia; il sostegno alle attività produttive; la riorganizzazione degli enti locali. Il Veneto è la regione che si spinge più in là: vorrebbe la laguna di Venezia, il controllo dei flussi migratori, il reclutamento dei Vigili del Fuoco. L’Emilia-Romagna sembra più prudente, ma è ugualmente incisiva: non chiede, per esempio, il rapporto di lavoro con gli insegnanti, ma fondi integrativi per poterne assumere di più e pagarli meglio.

Nel complesso, un numero elevatissimo di competenze potrebbe diventare regionale, in ben ventitré materie, sebbene la Costituzione non preveda che tutte le regioni possano chiedere tutte le competenze riconducibili a tutte le materie. Anche a non considerare che, così facendo, si modificherebbe la Costituzione eludendo le procedure previste (art. 138 Cost.), il principio di unità e indivisibilità della Repubblica (art. 5 Cost.) dovrebbe infatti indurre a interpretare il regionalismo differenziato nel senso che solo le richieste regionali motivate da specifiche peculiarità del territorio (per geografia, storia, demografia, economia, organizzazione, ecc.) possono trovare accoglienza.

Nel complesso, un numero elevatissimo di competenze potrebbe diventare regionale, in ben ventitré materie , sebbene la Costituzione non preveda che tutte le regioni possano chiedere tutte le competenze riconducibili a tutte le materie

Quanto, infine, al finanziamento delle nuove funzioni, il Ddl Calderoli prevede che le risorse da attribuire a ciascuna regione siano definite da una Commissione composta in modo paritario dallo Stato e dalla regione stessa e finanziate attraverso la compartecipazione al gettito dei tributi erariali (art. 5). Nessun rilievo è dato ai Lep, per evitare ricadute sul criterio della spesa storica, largamente favorevole al Nord. Per la medesima ragione, nessun impegno concreto è previsto a favore della perequazione inter-regionale. Sul punto, il Ddl Calderoli fa propria la rivendicazione regionale del residuo fiscale, per cui le regioni che pagano in tasse più di quanto ricevono in spesa pubblica avrebbero il diritto di trattenere almeno parte delle risorse versate al fisco. Si tratta, tuttavia, di una rivendicazione illogica e incostituzionale: illogica perché a pagare le tasse sono le persone, non le regioni, e lo fanno sulla base dell’ammontare del loro reddito, non del luogo di residenza; incostituzionale perché gli artt. 2 e 53 Cost. sanciscono che la solidarietà economica e tributaria operi a livello nazionale, non regionale, pena la dissoluzione dell’idea stessa di cittadinanza.

5. Rimane una domanda conclusiva. Siamo un Paese diviso da diseguaglianze (anche) territoriali profondissime (un dato su tutti, forse il più drammatico: la differenza di tredici anni nell’aspettativa di vita in salute tra la Calabria e Bolzano): davvero la priorità è ulteriormente acuire le differenze, anziché impegnarsi a ricostruire almeno un po’ di uguaglianza?