Il dibattito mediatico in Italia sulla guerra in Ucraina ha consolidato due immagini retoriche che hanno lo spessore politico delle figure di cartone utilizzate nei talk show prima che arrivasse la realtà aumentata: Il Partito Unico Bellicista, ritenuto incapace di riconoscere le colpe della Nato, favorevole ad armare l’Ucraina e quindi pronto a fare scivolare l’Europa, come i sonnambuli di Christopher Clark, nella Terza guerra mondiale; e i Rosso-Bruni, accusati di esercitare un pacifismo ipocrita che maschera un vecchio anti-americanismo di fondo e per questo bollati come putiniani.

Non se ne esce. Si è messa in moto la Macchina di Rube Goldberg, il famoso meccanismo che crea un percorso volutamente complesso, ai limiti della perversione, per eseguire operazioni che altrimenti sarebbero di una semplicità disarmante.

In questo caso è un percorso ideologico astruso a portarci lontano dal nocciolo della questione, cioè dai fatti di questa specifica guerra, dalle scelte politiche che l’hanno determinata, dalle reazioni che ha scatenato e dalle possibili soluzioni. Si è creata una complessità artefatta che ci tiene lontani dalla complessità vera.

Ogni settimana, ogni giorno, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia suscita narrative diverse – ed emozioni conseguenti – che diventano dominanti. L’orrore di Bucha e di altri massacri compiuti contro i civili dai soldati russi si è sostituito al sospiro di sollievo collettivo nei confronti di Kiev che aveva saputo respingere l’assedio costringendo il nemico a un clamoroso ripiegamento.

Ora enfasi e trepidazione sono concentrate sull’offensiva russa nel Donbass, sulle capacità di resistenza e reazione degli ucraini. L’orrore, però, resterà la costante di questo conflitto. La guerra di occupazione è diventata guerra di distruzione, gli artefici e gli esecutori puntano a svuotare e annientare un’entità statuale, compiono un lavoro sanguinario di pulizia ideologica ed etnica, la de-nazificazione, quasi fosse un esorcismo di massa.

Quelle cui assistiamo a distanza, e che testimoniano e verificano le centinaia di inviati e troupe televisive dei media di mezzo mondo, sono scene brutali e apocalittiche nel cuore d’Europa, ai nostri confini. Come tali sono rivelatrici della natura di chi le ha causate e continuerà a causarle fino a quando il suo disegno non sarà completato. Bucha, Kramatorsk e chissà, purtroppo, quanti altri luoghi martiri dell’Ucraina, hanno proiettato una luce ancora più sinistra sui piani d’invasione di Vladimir Putin.

Definire apocalittica la natura della Russia di Putin non è (più) un’iperbole, ancor prima di Bucha. Non ci bastava, forse, Mariupol ridotta a uno scheletro annerito e fumante?

Molti si sono interrogati e continuano a interrogarsi sulla salute mentale del presidente russo, se abbia completamente perso il contatto con la realtà, sia in preda a una lucida follia o, viceversa, sia lucido. Non avremo mai modo di saperlo. A essere rilevanti sono le conseguenze delle sue azioni, sempre precedute da parole e terminologie comunque rivelatrici. Sempre guidate da una spietata coerenza, da una visione ormai mistica della storia e del ruolo che la Russia dovrà avere nella storia.

Definire apocalittica la natura della Russia di Putin non è (più) un’iperbole, ancor prima di Bucha. Non ci bastava, forse, Mariupol ridotta a uno scheletro annerito e fumante? Questa natura è stata coltivata nel tempo e oggi è diventata un’attitudine che punta a terrorizzare gli avversari, presenti e futuri, le loro opinioni pubbliche, e a destabilizzare l’Europa.

Non mi soffermerò sulle tappe decisive del percorso preparatorio alla guerra perché le ho riassunte in un editoriale sul “Sole - 24 Ore” nel giorno stesso dell’invasione (la guerra in Cecenia; il discorso del 2007 alla conferenza di Monaco sulla sicurezza; la guerra in Georgia; l’invasione della Crimea e l’avvio della guerra nel Donbass; l’intervento in Siria; lo schieramento di 170mila soldati lungo il confine con l’Ucraina).

Partirò invece da due documenti importanti che nella valutazione di quanto sta accadendo e potrebbe accadere in seguito, in Ucraina e in Europa, sembrano essere stati prematuramente dimenticati.

Mi riferisco alle lettere del 17 dicembre indirizzate dal ministero degli Esteri russo alla Nato e agli Stati Uniti nelle quali Mosca fissa le condizioni per un nuovo ordine della sicurezza in Europa. Già i titoli di quei documenti sono significativi: “Trattato tra gli Stati Uniti d’America e la Federazione Russa sulle garanzie per la sicurezza” e “Accordo sulle misure per garantire la sicurezza della Federazione Russa e degli Stati membri dell’Alleanza atlantica”.

Trattato e Accordo: senza nemmeno far finta che si trattassero di proposte, di ipotesi da discutere con l’Amministrazione americana e con la Nato. Tutto già scritto, un prendere o lasciare al quale si era aggiunto il tono ultimativo e irritato del ministro degli Esteri Sergey Lavrov dopo i colloqui con il segretario Antony Blinken a Ginevra per cercare di arrivare a un compromesso o quantomeno a soddisfare alcune delle richieste di Mosca, in particolare quelle relative al disarmo.

In quei documenti, preceduti dai mesi in cui Mosca aveva ammassato 170mila soldati lungo il confine orientale dell’Ucraina, ci sono il prologo geopolitico e l’obiettivo storico di Putin, più affine all’impero zarista che all’Unione Sovietica. Non c’è solo la richiesta di una garanzia scritta sulla neutralità dell’Ucraina, ma anche lo stop a qualsiasi allargamento della Nato ad Est nonché il ritiro delle truppe dell’Alleanza dai Paesi (dell’Est) che erano entrati dopo il 1997.

Quest’ultima pretesa è particolarmente inquietante alla luce dell’invasione su ampia scala in Ucraina, che aveva come obiettivo primario la presa di Kiev e un cambio di regime, quindi il controllo politico dell’intero Paese. Nei fatti una revisione completa degli assetti del dopo Guerra fredda, un riavvolgimento degli eventi del 1989 e del 1991.

Quindi non era (e non è, nonostante l’attuale offensiva) solo il Donbass a interessare Putin. E se riuscisse a conquistare, dopo averlo svuotato, l’intero Paese, in che modo penserebbe di convincere la Nato a ritirare le sue truppe dalle Repubbliche baltiche, dalla Polonia, dalla Romania, come da documento ultimativo? Nella migliore delle ipotesi spostando ancora più a ridosso dei confini europei la zona grigia dell’instabilità con nuove minacce e ricatti.

Altrettanto importanti sono le sue parole, i discorsi, mai abbastanza analizzati e soppesati. Lì non fa né tattica né strategia, ma ci rivela semplicemente la natura del suo progetto. Il 21 febbraio si dedica all’Ucraina, che non è vista semplicemente come un Paese vicino, “ma come una parte inalienabile della nostra storia, cultura e spazio spirituale”.

Prosegue: “Questi [gli ucraini, N.d.R.] sono nostri compagni, i più cari – non solo colleghi, amici che un tempo hanno prestato servizio insieme, ma anche parenti, persone con legami di sangue e di famiglia”. Come concilia questo slancio passionale con la de-nazificazione in corso? Un processo che gode tra l’altro del pieno appoggio del patriarca della chiesa ortodossa di Russia, Kirill, sodale religioso di Putin che ha benedetto il conflitto come una guerra di liberazione dal rischio di contagio della decadenza morale dell’Occidente.

Poi l’orrore sul campo, i crimini di guerra, la loro negazione, perché è sempre bene instillare il dubbio

Dal discorso del giorno dell’invasione, il 24 febbraio, estrapoliamo due passaggi chiave, tra i tanti. Il primo è quando definisce la famosa “operazione militare speciale” aggiungendo che “i nostri piani non includono l’occupazione dei territori e non imporremo nulla ad alcuno con la forza”. Il secondo è il monito finale all’Occidente: “Chiunque cercherà di ostacolarci, di minacciare il nostro Paese e la nostra gente, deve sapere che la risposta della Russia sarà immediata e vi farà subire delle conseguenze come non ne avete mai viste nella vostra storia”. È stato il primo riferimento dopo decenni in Europa a una minaccia nucleare da parte di un capo di Stato. Uno spartiacque nella retorica bellicista, quella vera.

Poi l’orrore sul campo, i crimini di guerra, la loro negazione, perché è sempre bene instillare il dubbio, tanto ci sarà sempre una discreta moltitudine di scettici o negazionisti pronti a raccoglierlo e rilanciarlo oltre i confini della Russia: tanti, e comunque più numerosi e zelanti dei testimoni sul campo.

Del resto la storia di Jan Karski, eroe polacco della Seconda guerra mondiale, che come agente segreto fu uno dei primi testimoni dell’esistenza dell’Olocausto, insegna che si fa fatica, per incredulità, malafede o calcolo politico, a credere a simili orrori. Ricevuto da esponenti del governo britannico nel ’43 e dallo stesso presidente americano Franklin Delano Roosevelt, Karski riferì quanto aveva visto con i propri occhi nei campi di concentramento organizzati dai nazisti in Polonia.

In quell’occasione riscontrò l’indifferenza degli Alleati di fronte al consumarsi del genocidio perché Roosevelt e Churchill avevano deciso che in quel momento la priorità fosse l’annientamento dell’apparato bellico di Hitler. Karski visse il resto della sua vita in America, dove morì nel 2000, con un peso nell’anima: quello di essere stato un testimone inascoltato.

La dimensione apocalittica è anche nelle conseguenze internazionali di questo conflitto, cercate e volute dall’aggressore. Milioni di ucraini sono fuggiti dalle loro case in altre zone del Paese meno colpite dalla guerra, ma soprattutto hanno cercato riparo in Europa. L’Unhcr aggiorna quotidianamente, alle 12, il bollettino di questa tragedia umanitaria alla quale stavolta, come Unione, abbiamo saputo reagire mostrandoci solidali perché l’Ucraina segna anche il confine della nostra paura e delle nostre contraddizioni, sulle quali il disegno di Putin vuole fare leva.

In mezzo ci sono le menzogne (Lavrov, più volte, prima del 24 febbraio: “Non abbiamo alcuna intenzione di invadere”) e la negazione continua della realtà, paradossalmente comprensibili perché sono funzionali al conseguimento degli obiettivi di guerra e conquista e all’ipnosi collettiva dell’opinione pubblica in Russia. Come ha scritto la poetessa russa Maria Stepanova sul “Financial Times”, l’aggressore in questa guerra ingiusta, con i suoi crimini e le sue vittime, “lavora come se stesse compiendo un’opera d’arte, stesse scrivendo un libro o girando un film, in cui lo svolgersi degli eventi è controllato dal suo creatore”. Solo che in questo caso, continua, l’autore è pessimo, in tutti i sensi, come persona e scrittore non ha alcun riguardo nei confronti dei protagonisti della sua narrazione: “Non gli importa se sopravvivono o muoiono; non gli interessa dei loro bisogni e dei loro desideri; ancor meno delle loro libertà. La sola cosa che gli importa è la propria autorialità, l’affermazione della volontà e il controllo dei testi e degli eventi”.

Putin è un nostalgico che desidera un futuro passato e coltiva un ricordo che non ha mai avuto. Con questa natura dovremo confrontarci quando pensiamo sia giusto continuare a inviare armi all’Ucraina e quando invochiamo la de-scalation e ci lamentiamo molto genericamente perché non si fa abbastanza per mantenere aperti i canali di dialogo (chiedere a Macron o al cancelliere austriaco Nehammer cosa significhi parlare con Putin). Lui è l’autore solipsista di questa tragica storia.