L’informazione della Rai è sempre stata criticata; dalle opposizioni in quanto ritenuta troppo filo-governativa (la Lega diversi anni fa arrivò a minacciare, unico partito, lo sciopero del canone) e dalla maggioranza nella convinzione che non vengano esposti adeguatamente i positivi risultati dell’azione del governo. Per cui, le critiche di oggi rivolte all’occupazione dell’azienda pubblica da parte della maggioranza giallo-verde non sono una novità, anche se le intenzioni pre elettorali, in particolare dei pentastellati, erano opposte. Allarma rispetto al passato, anche al periodo “berlusconiano” (in quel periodo si assegnò, in alcune consigliature, all’opposizione il ruolo di presidente), la scarsità del pluralismo, come confermano i dati sulle presenze dei politici nei telegiornali (Tg1 in particolare) e il monito lanciato di recente dall’Autorità per le garanzie delle comunicazioni (vedi l’intervista del commissario Mario Morcellini su Repubblica.it del 24 dicembre 2018). Non si misura, comunque, il grado della parzialità della Rai fra i diversi periodi, quanto si constata il fatto che anche questa volta si è ripetuto l’assalto a viale Mazzini (nel “contratto di governo” c’era l’impegno “all’eliminazione della lottizzazione politica e alla promozione della meritocrazia”).

Il pluralismo in Rai è sempre stato inteso come ripartizione per aree politiche di riferimento delle varie testate, la ben nota lottizzazione: la maggioranza si auto-assegna il Tg1 (più l’importante Tg regionale e il Gg), alle opposizioni viene concessa una testata minore. Un pluralismo espresso come la sommatoria delle varie aree politiche, un metodo non adeguato ad avere un’informazione imparziale in quanto presupporrebbe che ciascuno possa vedere tutti i Tg e farne una sintesi. Ipotesi non praticabile. Oltretutto gli ascoltatori del Tg1 superano la somma degli ascoltatori del Tg2 e del Tg3.

Il problema è l’irrisolta questione dello spoil system, cioè (come sottolinea Paolo Pombeni su questa rivista) il “presunto diritto del vincitore di una competizione elettorale a garantirsi che la macchina burocratica lavori secondo quelle progettualità che chi è al governo è convinto di rappresentare su mandato degli elettori, affinché non si trasformi al contrario in un ostacolo al raggiungimento degli obiettivi”. Ma è concepibile, per esempio, che si cambi il vertice dell’Istat (e magari un domani della Banca d’Italia) per avere dati compiacenti sull’attività del governo? Il buon senso, il diritto ci impongono di rifiutare tale perversa logica, che ci porterebbe a vivere in una realtà virtuale. Sulla Rai, invece, questa logica è stata sempre applicata (nella “prima Repubblica” si diceva che la Dc fosse il suo editore di riferimento), con l’aggravante che il governo aumenta la sua influenza. Il governo Renzi (legge 220/2015) ha ampliato, rispetto alla precedente legge Gasparri, le competenze dell’esecutivo sulle nomine dei vertici, facoltà che la nuova maggioranza ha ben sfruttato. La Rai invece di avere (come rimarca Pombeni) “una funzione formativa sull’opinione pubblica” finisce per diventare “un’agenzia di sostegno delle politiche del governo”. Il pluralismo dovrebbe essere invece all’interno delle singole testate, arrivando così a fornire un’informazione il più possibile obiettiva. Bisognerebbe dare il resoconto più realistico dei fatti e commentarli senza offrire verità preconcette.

Un grande giornalista Rai del passato, Emilio Rossi, scriveva che al servizio pubblico si richiede “un’informazione intellettualmente onesta, il più possibile completa, attenta a riferire i fatti, pluralistica nel dar conto delle diverse valutazioni, impegnata a includere più che a escludere, a recare offesa a nessuno, aiuto a chiunque: aiuto a sapere, capire, valutare, partecipare. Certo è difficile mettere da parte le proprie preferenze ideologiche, è più facile esaltare quello che fa comodo alla propria parte e anche inconsciamente meno valore si riconosce alle idee della parte avversa”. Belle parole, che la realtà però smentisce.

L’imparzialità nell’informazione è merce rara da noi. In Cina si sta collaudando un robot dalle fattezze umane che conduca il Tg di un’emittente locale, l’anchor-man diventerebbe un giornalista virtuale (con il vantaggio che l’ologramma-giornalista potrebbe lavorare 24ore su 24 e senza retribuzione alcuna). Chissà che l’imparzialità non migliori con una redazione di robot.

È irriformabile la Rai? Difficile dare una risposta positiva. Il declino dell’azienda di viale Mazzini dura da anni, da decenni; a ogni cambio di maggioranza la situazione peggiora: è evidente che la tecnostruttura interna non ha l’orgoglio né la forza di opporsi alla pressione dei partiti politici. L’occupazione politica impatta non solo sull’informazione, ma su tutta la gestione. Non poteva rimanere esente la programmazione. A Raidue, è il caso del giorno, stiamo assistendo alla rimozione di diversi programmi e conduttori; cambiamenti che sono connessi ai normali avvicendamenti impressi dalla nuova linea editoriale e che vanno visti, in linea di principio, positivamente, dato l’immobilismo dei palinsesti, il grande limite della televisione. Sono scattate pesanti polemiche in particolare per l’abolizione della striscia satirica dei due comici Luca e Paolo (anche se il duo comico si esibirà nel programma Quelli che il calcio) invisa alla maggioranza, abolizione motivata essenzialmente da ragioni politiche. Aleggia sul palazzo di viale Mazzini l’idea del controllo politico della programmazione? Ritorna la prassi più esecrabile, quella della censura politica? Ci auguriamo che non sia così; dopo il famoso “editto bulgaro” e alcuni casi similari accaduti anche nella passata legislatura, si spera che tutto questo sia definitivamente bandito.

Dovesse perdurare e ancor più peggiorare la crisi della Rai, ci si dovrebbe domandare se non sia auspicabile restringere gli spazi di mercato per l’azienda pubblica, favorendo così il sorgere di nuovi poli televisivi e ampliando il pluralismo delle fonti d’informazione.