Domenica 22 ottobre si tengono in Veneto e Lombardia due consultazioni referendarie regionali. Si tratta di referendum che mirano a conoscere l’orientamento degli elettori della regione circa l’attribuzione di forme e condizioni particolari di autonomia al proprio ente territoriale. In provincia di Belluno un ulteriore referendum chiederà maggiore autonomia provinciale, proponendo che, in sede di intesa Stato-Regione ex articolo 116 c. 3 Cost., sia inserita tra i negoziati un’apposita voce sull’individuazione delle funzioni amministrative che potrebbero essere conferite alla provincia (cosa peraltro già prevista dallo statuto regionale).

Si tratta di referendum giuridicamente inutili, ma politicamente assai importanti. Sarebbe un errore limitarsi al formalismo e definirli irrilevanti, e del resto la stessa Corte costituzionale ha affermato che si tratta di atti idonei a incidere comunque sul sistema complessivo (sent. 118/2015).

La partita politica si giocherà sulla partecipazione, non sul risultato. È scontato un plebiscito a favore del «sì», ma la forza politica che le consultazioni conferiranno ai rispettivi governi regionali dipenderà da quanti cittadini si prenderanno la briga di recarsi ai seggi – in Veneto tra l’altro è previsto anche un quorum, quindi senza la partecipazione della maggioranza degli aventi diritto il referendum non sarà valido.

Due le domande che si pongono: il referendum è lo strumento giusto? E quali saranno le ricadute sul sistema regionale complessivo?

Due le domande che si pongono: il referendum è lo strumento giusto? E quali saranno le ricadute sul sistema regionale complessivo? Quanto al referendum, anche se inutile sul piano strettamente giuridico, è indubbia la sua forza politica. Altre regioni (comprese Veneto e Lombardia) avevano in passato tentato di attivare la complessa procedura di acquisizione di nuove competenze ex articolo 116 c. 3 Cost., ma senza successo (sia detto en passant, la riforma costituzionale bocciata al referendum dello scorso anno semplificava questo procedimento). In evidente polemica col ricorso al referendum delle due regioni a guida leghista, l’Emilia-Romagna ha avviato il medesimo procedimento di propria iniziativa senza alcuna consultazione, e il 18 ottobre ha già raggiunto un primo accordo con il governo, che ha evidentemente tutto l’interesse a dimostrare che si può avere più autonomia senza fare tanto baccano.

Tuttavia è innegabile che senza i referendum gli eventuali negoziati ai fini dell’intesa di cui all’articolo 116 c. 3 Cost. sarebbero rimasti tema per specialisti, cui dedicare al più qualche convegno. La gente del resto non si mobilita per il federalismo, ma lo fa quando ci sono in ballo le urne. E pertanto difficilmente l’Emilia-Romagna avrebbe beneficiato della corsia veloce se non ci fossero stati i referendum lombardo-veneti. Insomma, il referendum è inutile ma indispensabile. Ma proprio perché è un’arma potente, persino deflagrante, va usata con estrema cautela. Perché è elevato il rischio che scoppi tra le mani di chi lo attiva (Catalogna docet).

E siamo così alla seconda questione, quella degli effetti di queste consultazioni. Che dipenderanno dall’utilizzo del referendum come “bomba” o come “motorino d’avviamento”. L’ipotesi “bomba” si realizzerà se dovesse produrre esplosioni a catena, ossia referendum analoghi in tante altre regioni ordinarie (come già preannunciato da Berlusconi), o un’esaltazione dei governi regionali tale da far perdere loro il senso della misura, o ancora l’utilizzo dei risultati nella lotta politica nazionale. In questi casi, sarà una nuova prova di immaturità del sistema regionale italiano e della sua classe politica ispirata a logiche poco regionali e molto nazionali. E finirà in un’ulteriore depressione di un regionalismo che invece ha quanto mai bisogno di un rilancio.

In Italia è purtroppo sempre mancata una cultura territoriale

Se invece prevarrà l’ipotesi “motorino d’avviamento”, e dunque i referendum metteranno in moto un effetto di rilancio per il sistema regionale ordinario, ci sarà un beneficio complessivo ben al di là dei negoziati sull’attribuzione di specifiche competenze all’una o all’altra regione. In Italia è purtroppo sempre mancata una cultura territoriale (chiamiamola del “federalismo”, per semplificare), il che ha significato una continua ed esagerata oscillazione del pendolo nell’equilibrio tra i livelli di governo, con una predominante pendenza verso il centro. Dopo la riforma del Titolo V nel 2001, si è assistito non solo a una progressiva ricentralizzazione del baricentro dei poteri, ma anche e soprattutto all’affermazione di una retorica anti-regionale, ampiamente supportata da scandali e malgoverno.

Ma l’inettitudine o la corruzione di alcuni amministratori non può significare l’inutilità degli enti. Con la stessa logica si dovrebbe abolire anche lo Stato. Piuttosto, occorre rendersi conto dell’ovvio, ossia che un Paese asimmetrico, profondamente diverso come l’Italia, non può essere governato interamente dal centro, e che i livelli di governo devono essere alleati per una gestione integrata di politiche che quasi sempre richiedono il concorso di tutti, non una sterile concorrenza.

Se questo processo di metterà in moto, i soldi per i referenda saranno tra i meglio spesi. Se prevarrà l’effetto bomba, saranno l’ennesimo spreco.