Nel Pd che si prepara al prossimo congresso c’è la tentazione di non fare i conti con l’eredità del renzismo (sempre che, beninteso, il renzismo sia mai esistito). Eppure non si può dimenticare che dal 2009 – anno in cui ha vinto le primarie di Firenze – fino alla sconfitta delle elezioni politiche del marzo 2018, Matteo Renzi ha fortemente condizionato e orientato il dibattito pubblico del centrosinistra e non solo. Ma l’ex segretario del Pd nella sua fase iniziale è stato qualcosa di più: è stato visto come “l’ultima spiaggia”, il salvatore della patria del centrosinistra, dopo la “non vittoria” del Pd nel 2013. Ora, prima o poi bisognerà pur spiegare che l’ex presidente del Consiglio aveva ereditato un guscio vuoto e che ha soltanto differito di qualche anno l’inevitabile crisi del centrosinistra. Non si può però glissare o fischiettare; non si può appunto non fare i conti con il renzismo e il suo lascito politico.

In quest’epoca che tritura leader, partiti e correnti di vago pensiero pare non esserci spazio per analizzare le storie che hanno caratterizzato il dibattito pubblico degli ultimi 8 anni. Si passa subito al prossimo tweet, come se non fosse successo nulla. Nessuno si chiede come sia possibile che chi aveva annunciato di voler mettersi a capo di una generazione senza voce poi abbia finito per tradirne le aspettative. Nessuno si chiede come chi poteva avere a disposizione, almeno all’inizio, le migliori intelligenze abbia finito per privilegiare criteri di fedeltà (con molta stizza per l’autonomia e l’indipendenza di pensiero politico). 

Sono almeno due le questioni della stagione renziana che invece meritano un approfondimento. 1) La selezione della classe dirigente; 2) l’organizzazione del partito. Nelle ultime settimane ha destato stupore la vittoria di Alexandria Ocasio-Cortez, 28 anni, alle primarie democratiche americane per le elezioni di midterm di autunno. Eppure non è successo per caso. “È stata ‘scoperta’ da ‘Brand New Congress’, un team che, in giro per gli Usa, cerca talenti nella società e li sceglie, supportandoli, per favorire un loro ingresso in politica. Strategie, non fuffa”, ha osservato il professor Francesco Clementi, già frequentatore della convention della Leopolda. “Il punto non è tanto la ‘scelta sulla linea politica’. Che si può discutere. Ma un metodo e una tecnica”, ha aggiunto Clementi. Lasciate appunto stare l’offerta politica di Ocasio-Cortez, una sostenitrice di Bernie Sanders, quindi molto spostata a sinistra. Qui il tema è come si seleziona la classe dirigente. La Leopolda – a ottobre ce ne sarà un’altra – era stata progettata anche per questo. È diventata altro, fino a essere, all’apice del potere renziano, consustanziale alla società dello spettacolo che oggi premia la gente con discutibili quarto d’ora di celebrità. Le Leopolde, che hanno avuto anche la funzione di macchina scenografica di propaganda elettorale per il Capo, in nove anni di attività non hanno prodotto sui territori un personale politico sufficientemente attrezzato. Come ha detto una volta parlando dei renziani l’economista Luigi Zingales, altro ex frequentatore della Leopolda, “quello che differenzia una nuova classe dirigente da una nuova élite, è la condivisione di una nuova e comune visione intellettuale e morale. In questo senso non vedo una nuova classe dirigente, ma semplicemente persone diverse e più giovani”. 

In questi anni non un’autocritica è venuta dal Giglio Magico che ha governato, più intenzionato a consolarsi perché il Pd continua a perdere “anche senza Matteo Renzi”, come ha detto il capo dei senatori del Pd Andrea Marcucci dopo le sconfitte ai recenti ballottaggi. Un risultato che è pienamente nel solco di quelli precedenti e che arriva anche (secondo punto) per questioni organizzative. Renzi si era proposto come uno straordinario disarticolatore dei corpi intermedi. Invece per un curioso paradosso il grande disintermediatore è sempre rimasto impigliato nelle leadership locali. Specie quelle del Mezzogiorno, dove ha storicamente dovuto lasciare il passo ai micronotabili, come li chiama il politologo Mauro Calise. A parte i comitati nati per primarie e congressi, che cos’altro è sorto sul mitologico territorio? Niente. Ma quei comitati che avrebbero dovuto costruire l’architrave di un nuovo partito si sono rivelati molto fragili. D’altronde, come ha spiegato Calise, “Renzi ha buttato a mare il brand Pd perché non è stato capace di organizzarlo. Si è conquistato il brand, ma l’azienda era decotta. Ed è rimasta la stessa di Bersani: circoli, assemblee, direzioni. Accrocchi protonovecenteschi. Spodestata l’oligarchia, a fare girare la macchina sono rimasti i micronotabili, che sono saliti rapidamente sul carro del vincitore e ora, ancora più in fretta, ne stanno scendendo. La vera domanda della politica, per chi vuole comandare, è prima il come, poi il cosa”. E l’organizzazione per uno che voleva rottamare riti e classi dirigenti non è secondaria. Ma a Renzi non è mai interessato fare il capo-partito, mestiere che ti porta a compromessi che invece il potere esecutivo cerca di evitare. L’ex sindaco di Firenze ha pensato di poter governare il Pd da Palazzo Chigi. C’è chi vede nella sconfitta al referendum l’inizio della fine ma è un errore: i guai cominciarono dopo le elezioni Europee del 2014. Letale fu l’arroganza, dopo quel 40,8% alle Europee che finì stampato su molti striscioni delle feste de L’Unità. Renzi e i renziani erano convinti d’essere già arrivati, e lì fu appunto l’avvio del declino tra aspettative tradite, partite di poker sbagliate, tra cui il referendum, e un progressivo, inesorabile arroccamento. Un patrimonio politico enorme costruito agilmente su un’apertura di credito che poi è sparita. Se si vuole capire il Renzi leader politico non si può non seguire la vicenda della sua segreteria e quella della conduzione del giornale di partito. Tutto si tiene. La gestione del Pd e quella della defunta “Unità” hanno proceduto specularmente. Così come fare il segretario di partito era un fardello (ti chiamano dalla Sicilia per sapere chi mettere in giunta in Regione, ti chiamano dal Veneto per decidere chi candidare contro il centrodestra) ma necessaria, lo stesso è accaduto con il quotidiano fondato da Gramsci: serviva qualcosa per dirsi di sinistra, un feticcio, un’icona, e il giornale dell’ex Pci-Pds-Ds era perfetto. Gli interessava davvero, però? No.

Oggi si parla di un nuovo partito di Renzi. Ci sono però pallottole già sparate, come quella dell’outsider o anti-establishment e il “giovane” ex presidente del Consiglio sembra già precocemente invecchiato. Oltretutto non è invecchiato solo lui – la cui “prova del potere”, per citare un libro di Giuliano da Empoli è parzialmente fallita – ma anche le sue policies, che andavano a coprire una domanda politica precisa. E qui alla fine sta la parte peggiore, per chi ha avuto fiducia in questi anni nel suo progetto: chiunque verrà dopo di lui al congresso, magari seriamente intenzionato a ripercorrere alcune delle sue idee (che vanno separate da Renzi), non potrà che ricevere in risposta le lamentele di chi dice “ma questa l’abbiamo già sentita”. Anche le idee sono a loro volta outsider, pallottole pronte a esplodere ma dal numero limitato.

 

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