La lunga tragedia della pandemia si è intrecciata con le questioni dell’immigrazione su più livelli, in parte confermando le tensioni securitarie e le politiche di chiusura, in parte ponendole invece in discussione e proponendo un nuovo sguardo sul fenomeno.

Cominciamo dal primo aspetto: la pandemia come argomento per nuove chiusure. La crisi sanitaria ha scacciato gli sbarchi dalle prime pagine dei giornali, dando all’opinione pubblica altri e ben più solidi motivi di allarme, ma non ha giovato agli immigrati in modo univoco. Abbiamo assistito, soprattutto nelle prime fasi, a fenomeni inquietanti di ripulsa ed emarginazione nei confronti di persone di origine cinese e a volte di altri asiatici. Soprattutto, il Covid-19 ha offerto nuovi pretesti di chiusura nei confronti dei richiedenti asilo provenienti dall’Africa.

La paura che gli stranieri (specie se poveri) diffondano malattie è antica e radicata. L’argomento era già stato invocato negli scorsi anni nei confronti dei rifugiati africani, da alcuni additati come portatori di Ebola, da molti altri tenuti alla lontana anche per presunti rischi sanitari. Alcuni influenti protagonisti dei social avevano diffuso notizie di numerosi casi di contagi per Tbc e altre malattie, per esempio tra le forze dell’ordine che gestivano gli sbarchi. Molti ricorderanno gli agenti di polizia accoglierli con guanti e mascherine. Ma non c’è stata notizia di vere o presunte epidemie che non abbia sollevato la richiesta di chiusura delle frontiere verso rifugiati e immigrati dal Sud del mondo.

Malgrado la sproporzione tra la circolazione delle persone per turismo e quella relativa alle migrazioni, è la seconda a inquietare.

Così, nell’aprile del 2020, in prossimità della Pasqua, il governo Conte Due assumeva una decisione drastica: giacché era in corso l’epidemia di Covid-19, l’Italia dichiarava di non avere porti sicuri da offrire, quindi vietava gli sbarchi delle persone salvate in mare dalle navi delle Ong fino al 31 luglio. Non la quarantena, come già avvenuto, e come tuttora avviene nei confronti dei richiedenti asilo che arrivano spontaneamente sulle nostre coste. Proprio il divieto di sbarco, con l’eventuale respingimento verso la Libia. I giornali vicini al centrodestra e ostili ai rifugiati esultavano: per chiudere finalmente i porti ci voleva un’epidemia.

Quando è faticosamente rientrata questa misura drastica, in contrasto con le stesse disposizioni della commissione Ce (16 marzo 2020) che esentava dal blocco «le persone che necessitano di protezione internazionale», il governo ha fatto ricorso alle navi quarantena, sollevando molte proteste tra le organizzazioni umanitarie: persone trattenute in mare, in condizioni di affollamento e disagio, prive di molti servizi necessari.

La pandemia da Covid-19 ha pertanto rafforzato il trend di securitizzazione dei confini e di ripiegamento sulla sovranità nazionale, nello sforzo di proteggere il gruppo degli inclusi (i cittadini nazionali) dagli outsider, migranti e rifugiati, percepiti come una minaccia per il benessere nazionale. La solidarietà interna e l’obbligo degli Stati di proteggere i propri cittadini ha esacerbato la contrapposizione verso persone vulnerabili provenienti dall’esterno.

La seconda conseguenza della pandemia sugli immigrati ha riguardato il fronte interno. Il confinamento ha colpito molti lavoratori, in modo particolare quelli autonomi, precari, non garantiti, sommersi. Ha anche pesato sulle modalità di sopravvivenza dei soggetti marginali, dai parcheggiatori abusivi ai suonatori ambulanti, ai mendicanti. Tra di loro è elevata la percentuale d’immigrati, che si sono trovati immediatamente esposti all’impatto economico della pandemia. Spesso anche privi degli ammortizzatori sociali, e soprattutto del reddito di cittadinanza. Secondo l’ultimo rapporto Caritas sulla povertà, sono escluse dalla possibilità di richiedere il Reddito di cittadinanza quattro famiglie straniere povere su dieci, a causa soprattutto del requisito penalizzante dei dieci anni di residenza richiesti. Secondo la Banca d’Italia, solo il 9% dei percettori sono cittadini stranieri. Si è invece rivelato più inclusivo il Reddito di emergenza, che conta un 20% di immigrati tra i beneficiari.

Sul versante del cambiamento almeno parziale dello sguardo dobbiamo ricordare poi la scoperta, forse transitoria, dei lavoratori essenziali. La pandemia ha reso visibili almeno una parte dei lavoratori impegnati ad assicurare servizi di vitale importanza per la sopravvivenza del resto della società. Lavoratori spesso umili, malpagati, dall’occupazione precaria se non irregolare.

La pandemia ha reso visibili almeno una parte dei lavoratori impegnati ad assicurare servizi di vitale importanza per la sopravvivenza del resto della società. Lavoratori spesso umili, malpagati, dall’occupazione precaria se non irregolare

I riflettori però non si sono accesi compiutamente sulle origini di questi lavoratori: su quanto cioè tra i lavoratori essenziali incida la componente di origine immigrata. Se complessivamente gli immigrati rappresentano il 10,6% dell’occupazione regolare del nostro Paese (in cifre, 2,45 milioni), proprio nei settori cruciali per il funzionamento quotidiano della società e nei lavori manuali che li sostengono il loro lavoro è ancora più determinante. L’agricoltura è il caso più noto: 17,9%, senza contare l’occupazione non dichiarata. Allo stesso livello i servizi alberghieri. Ma il dato s’impenna in quelli che l’Istat definisce «servizi collettivi e personali»: 36,6%. Troviamo qui il fenomeno delle assistenti familiari, dette «badanti», ma anche altre categorie non adeguatamente riconosciute: in molte regioni, per esempio, gli addetti alle mansioni ausiliarie della sanità e dell’assistenza residenziale. Secondo l’Associazione medici stranieri in Italia, sono oltre 77.000 gli operatori sanitari di origine straniera, tra cui 22.000 medici e 38.000 infermieri. Tra loro purtroppo anche alcune vittime del Covid-19. Solo il 10% è assunto dal Servizio sanitario nazionale, e nemmeno le aperture contenute nel Decreto rilancio sono riuscite a smuovere le Asl da una chiusura pregiudiziale nei loro confronti.

Ma se gli ospedali e le Rsa funzionano è anche grazie al lavoro semi-nascosto degli operatori di base (mense, igiene, servizi alberghieri), che pure si sono esposti al rischio di contagio per attendere ai loro compiti. Pulizie, magazzini, servizi di recapito (i corrieri e i fattorini in bicicletta, i cosiddetti rider) sono altri settori a elevata incidenza di lavoro immigrato: di tutti abbiamo scoperto la necessità, la scarsa visibilità pubblica, le modeste ricompense. Non sempre l’origine di chi li svolge.

Su questa scoperta dei lavoratori essenziali si è innestata la contrastata e parziale sanatoria del 2020. Un provvedimento che ricalca la consolidata tradizione italiana selle sanatorie appese alla buona volontà dei datori di lavoro, ma anche anomalo, perché richiesto dalla ministra dell’Agricoltura, e motivato inizialmente proprio dalla mancanza di braccia per il lavoro nei campi.

La clemenza appariva dunque la migliore delle soluzioni possibili, nello stesso interesse del nostro Paese. Ma la contrarietà del M5S, oltre che del centrodestra, ha reso molto più controverso e tortuoso il percorso decisionale, tanto da arrivare al traguardo quando all’agricoltura non serviva più. Di fatto, la logica della norma è piuttosto obliqua. Dove non è arrivata la tutela dei diritti umani, sono arrivati gli ortaggi da raccogliere. Dove non ha fatto breccia la protezione dal contagio di persone prive di accesso ai servizi, con conseguenza anche per la nostra salute, è passata una stentata accoglienza delle braccia necessarie a certi settori. Dove si poteva approfittare dell’occasione per risanare i guasti dei decreti sicurezza, e insieme di un mercato nero del lavoro senza garanzie, si è preferito discriminare tra un’occupazione e l’altra, tra uno sfruttamento e l’altro.

Si poteva approfittare dell’occasione per risanare i guasti dei decreti sicurezza e di un mercato nero del lavoro senza garanzie: si è preferito discriminare tra un’occupazione e l’altra, tra uno sfruttamento e l’altro

Di fatto, il provvedimento ripercorre le orme delle politiche migratorie all’italiana. La politica di regolazione dell’immigrazione ancora una volta ha seguito il mercato: una volta che i datori di lavoro, in questo caso solo di alcuni settori, decidono di assumere lavoratori stranieri, governo e Parlamento glielo concedono, sia pure dopo polemiche e contorsioni. In negativo questa volta entra in ballo appunto la discriminazione settoriale: hanno avuto l’opportunità di sfuggire al sommerso i lavoratori di agricoltura, zootecnia, pesca, servizi domestici e servizi assistenziali presso le famiglie. Questi ultimi hanno catalizzato l’85% delle 207.000 istanze presentate. Porte chiuse per gli altri: lavorare in un cantiere edile, in un ristorante o in un’impresa di pulizie non comporta possibilità di emersione.

A lenire il danno compare la possibilità di assunzione futura: se l’attuale manovale o l’addetta alle pulizie, o anche il disoccupato, hanno trovato un datore di lavoro dei settori «giusti», hanno potuto essere regolarizzati. Poi tra qualche mese, grazie alla possibilità di conversione del contratto, avranno eventualmente la possibilità di transitare verso altre occupazioni. Magari verso quella che già stavano svolgendo in precedenza.

A complicare la situazione sono intervenute le lentezze nell’esame delle domande da parte delle Questure: dopo quasi un anno, a Milano è in istruttoria circa il 20% delle domande, le altre non hanno ancora neppure iniziato l’iter. Ne sono state definite meno di 1.000 su 27.000. Nel resto d’Italia non va meglio.

Pur con questi gravi limiti, la sanatoria è stata tutt’altro che un flop, come gridano i tifosi delle curve contrapposte. Insieme al Portogallo, rappresenta un’eccezione in un panorama internazionale in cui nessun Paese ha attuato provvedimenti straordinari di regolarizzazione a seguito della pandemia. Aver concesso a 200.000 immigrati la possibilità di regolarizzarsi è un dato straordinario nell’intero Nord del mondo. In uno scenario cupo, e nell’attesa di politiche migratorie migliori, almeno questo esito positivo merita di essere riconosciuto, e semmai reso finalmente operativo.