Tanto tuonò che piovve. Passate le elezioni europee, la politica tedesca si ritrova con gli stessi problemi che l’affliggono da anni: una traballante coalizione di governo, i partiti storici della Cdu e della Spd in cerca di un’identità e, soprattutto quest’ultima, in piena crisi, lo spauracchio dell’estrema destra, che sembra affliggere soprattutto i Länder a Est.

In realtà, Alternativ für Deutschland ha da tempo raggiunto il suo picco elettorale e sembra destinata a stabilizzarsi o addirittura a iniziare un lento ma inesorabile declino: il risultato delle europee è certamente buono (11%, due milioni di voti in più in più rispetto al 2014, complessivamente in leggero calo rispetto alle elezioni federali del 2017), ma evidenzia come la repentina crescita, determinata nel 2015 dalle polemiche per la politica di accoglienza dei rifugiati della cancelliera, si è ormai arrestata. Questo non vuol dire che il partito non continuerà a stupire gli osservatori e la stampa: tra qualche mese con ogni probabilità otterrà nei Länder orientali, dove si vota per il rinnovo dei Parlamenti territoriali (il primo settembre in Brandeburgo e Sassonia, il 27 ottobre in Turingia, dove governa, in una coalizione con Spd e Grünen, l’unico Ministerpräsident della Linke), risultati considerevoli, diventando addirittura il primo partito. Ma bisogna ricordare che, proprio in questi Länder, le precedenti elezioni locali si tennero nel 2014, prima, cioè, degli eventi che hanno determinato il successo politico di AfD in tutta la Germania: un nuovo trionfo, quello annunciato del prossimo settembre, che guarda al passato più che al futuro.

Il vero problema è rappresentato dalle conseguenze di questa stabilizzazione di AfD sul sistema politico tedesco, che per decenni (praticamente per tutti i quarant’anni di vita della Repubblica di Bonn) è stato gestito fondamentalmente da due partiti, con i liberali a fare da ago della bilancia. Già nel 1998, con il governo rosso-verde, questo schema si è incrinato: la coalizione fu allora costituita da socialdemocratici e Grünen, un esperimento a suo modo storico e inedito per la Germania. Oggi il sistema si struttura intorno a ben sei partiti, con una evidente crisi delle due vecchie Volksparteien, chiaro simbolo di una richiesta di forte cambiamento da parte dell’elettorato, in particolare a Est, dove si sperimenta il ritardo, quando non il vero fallimento, delle politiche per la riunificazione. Occorrerà inventare, a livello sia federale sia locale, nuove formule di governo; le prossime coalizioni saranno probabilmente più instabili (magari già solo per il fatto di essere costituite da tre partiti) e le opposizioni molto divise e, quindi, più deboli.

La Cdu ha perso oltre sei punti percentuali rispetto al 2014, ma il risultato, certamente non brillante, non è stato pessimo; bisogna considerare che per le elezioni europee la Corte costituzionale ha imposto l’eliminazione della soglia di sbarramento che ha permesso a una serie di partiti di ottenere, a discapito delle altre formazioni, seggi al Parlamento: in totale le forze rappresentate sono nove.

Kramp-Karrenbauer aveva scelto per la Cdu un programma per le europee estremamente ambiguo, fatto di un europeismo di facciata ma privo di idee su come cambiare la politica continentale; per ora l’unica notizia certa è che la Cdu intende imporre il sistema delle candidature per la presidenza della Commissione Ue, alla quale far eleggere il bavarese Weber, rischiando anche lo scontro con Macron. Lontanissima da AfD sulle questioni istituzionali (i populisti non chiedono più l’uscita immediata dall’euro ma vogliono l’abolizione del Parlamento), tutto sommato la Cdu ne condivide lo scetticismo, quando non l’aperta ostilità, su ogni tentativo di impegnare l’Europa nelle questioni sociali.

Secondo la stampa e parte dell’establishment il problema dei conservatori si chiama Angela Merkel: si crede (o si spera) che, allontanata la cancelliera, la Cdu recupererà il suo elettorato. Ragion per cui l’unica discussione sembra essere legata ai tempi di successione: quando Kramp-Karrenbauer sostituirà Merkel alla cancelleria? La domanda finge di ignorare che, nel caso, sarà necessario costruire anche un’altra coalizione, magari proprio con i Grünen e i liberali della Fdp: perché la Spd dovrebbe suicidarsi definitivamente e accettare alla guida di una nuova Grande coalizione la prossima candidata alla cancelleria? Perché, cioè, dovrebbe permettere a Kramp-Karrenbauer di arrivare alle elezioni del 2021 non come semplice presidentessa della Cdu ma come Cancelliera in carica?

Al di là delle dimissioni della Merkel, che comunque non intende lasciare prima della scadenza naturale nel 2021, se fino a oggi AfD è stata un problema solo per la Spd (perché l’ha spinta, quasi obbligata all’abbraccio con i conservatori) dopo le elezioni autunnali nei Länder la Cdu potrebbe essere obbligata a rompere il tabù e ad accettare un governo, perlomeno a livello territoriale, con i populisti. Ed questo è il vero scenario che terrorizza Kramp-Karrenbauer, che si aspettava da queste elezioni europee una prestazione più soddisfacente del proprio partito, per invertire completamente il trend nelle elezioni locali ed evitare questa ipotesi.

I Grünen non sono più una sorpresa: la loro crescita è, quantomeno in Germania, la vera costante degli ultimi anni. Sono il secondo partito federale, caratterizzato da un programma lontanissimo da quello degli inizi, quando erano ancora un prodotto del movimento del 1968. Un partito estremamente pragmatico e che potrebbe sostituire, nel 2021, la socialdemocrazia al governo federale. Proprio perché si avvantaggia di questa novità del sistema politico tedesco: l’elettorato sceglie i Grünen perché capaci di affrontare ogni circostanza, cioè in grado di sedere in ogni coalizione, rappresentando determinate istanze e alcuni grandi temi ideali.

Qui sta anche la crisi della Spd, al di la di una campagna elettorale con candidati decisamente poco brillanti (quasi anonimi: è il caso della ministra della giustizia federale Katarina Barley) e di un pessimo risultato elettorale: appena il 15,8%, quasi dodici punti in meno, e solo terza forza tedesca, superata dai Grünen, e sconfitta bruciante in una, ormai ex, roccaforte come Brema, dove sono stati superati, fatto più unico che raro, dalla Cdu. Come per la Cdu, ridurre la discussione al futuro politico di Andrea Nahles, che comunque per ora esclude dimissioni e intende richiedere la fiducia ai propri parlamentari al Bundestag, è del tutto improprio.

Per anni la socialdemocrazia ha cercato di sottolineare la propria “responsabilità”, o, meglio, la capacità di governare il Paese: per fare questo hanno affrontato scelte impopolari e dimenticato del tutto l’orizzonte di un partito che continua a propugnare il socialismo democratico. Willy Brandt, che pure non ha mai rimosso la critica al capitalismo dall’orizzonte del partito, ricordava che la prima qualità in politica era la fantasia. Cioè saper leggere nelle pieghe del presente gli sviluppi del futuro e provare ad anticiparli. La Spd, invece, negli ultimi anni fantasia non ne ha mai avuta. Non è solo il caso delle reazioni all’intervista a Kevin Kühnert, il capo degli Jusos, ma anche, ad esempio, ad aver completamente abbandonato, nelle trattative dello scorso anno per il governo, la questione della riforma sanitaria per costruire un sistema più universale, inclusivo ed equo.

A furia di presentarsi come insostituibile per la democrazia tedesca, la Spd non ha capito che il sistema politico si evolveva e che, priva di un’autentica differenza progettuale con i conservatori, rischiava di diventare una forza del tutto marginale, incapace di suscitare l’interesse degli elettori e di determinati gruppi sociali.

Qui si è dissolta anche l’illusione della Linke (appena il 5,5%), forza nata per intercettare l’emorragia proveniente dalla Spd e che non ha praticamente mai centrato l’obiettivo. Con la crisi della socialdemocrazia scompare anche il mito delle “due sinistre”. Adesso potrebbe persino riaprirsi la polemica interna, con Sahra Wagenknecht pronta a rivendicare maggiore radicalità. Come se bastasse. Visti i numeri e la rapidità con cui il quadro politico si sta trasformando, sarebbe il caso davvero di mettere in discussione l’attuale divisione delle forze e pensare, esattamente come nel 1875 il congresso che unificò le due anime del movimento dei lavoratori, a una nuova forza che possa raccoglierne e aggiornare l’eredità. Solo così potrebbe svilupparsi un vero progetto ampio e plurale di rilancio dell’ipotesi del socialismo democratico. Tuttavia, la situazione attuale, come pure la classe dirigente di entrambi i partiti, lascia ben poco spazio all’ottimismo.