«Dobbiamo evitare che alcuni governatori al di fuori delle aree di contagio possano adottare iniziative autonome. Nessuno deve andare per la sua strada, altrimenti provocheremmo confusione a livello nazionale». Parole del presidente del Consiglio Conte in relazione alla gestione dell’emergenza coronavirus. Parole apparentemente sagge e condivisibili. La circolazione di un virus non conosce confini regionali, il problema è globale, ci manca solo che ogni regione vada per conto suo. Se l’emergenza è in Lombardia è giusto che in Calabria chiudano le scuole? Può il presidente della Regione del Veneto imporre a tutti i residenti i controlli sanitari, con i relativi costi? Se mancano mascherine e altri strumenti di protezione, specie per il personale sanitario, può (o addirittura) deve una Regione acquistarne in quantità a fini preventivi, sottraendoli così a territori che al momento risultano nei fatti più colpiti?

Con l’emergenza virus tornano – inevitabili quanto irrazionali – le discussioni intorno alla governance sanitaria, le polemiche sulla regionalizzazione della sanità ma anche di altre materie: trasporti, governo del territorio, segmenti di tutela dell’ambiente, protezione civile ecc. Il tono dominante sembra essere quello per cui la gestione regionale crea frammentazione, quindi inefficienza, ritardi, costi, scelte irragionevoli. Anche quando non lo si dice esplicitamente, il messaggio è che occorre una gestione centralizzata. A prima vista è un messaggio che appare ragionevole. E quando nella discussione (già di per sé molto emotiva perché condizionata dal clima emergenziale) si innestano comportamenti poco razionali o poco inclini alla solidarietà da parte delle Regioni, si forniscono ulteriori argomenti a sostegno della tesi. Una tesi che, se portata a conseguenze estreme, induce a ritenere che le Regioni siano inutili o persino dannose, degli ostacoli alla gestione efficiente dei problemi. Corre quest’anno il cinquantesimo anniversario della istituzione delle Regioni ordinarie, ma sembra che queste non siano entrate nel cuore dei cittadini, nella testa dei politici e nelle penne dei giornalisti. Spesso, anzi, le Regioni sono assunte a capro espiatorio dei problemi che di volta in volta si pongono.

Occorre però guardarsi da questa e da tutte le altre semplificazioni. Innanzitutto, i problemi più pressanti del nostro tempo sono globali: dal clima al terrorismo, dalla sfida tecnologica alle migrazioni, fino alle emergenze sanitarie, come nel caso del virus. Se non c’è spazio per le Regioni, non vale lo stesso anche per gli Stati? Come può un singolo Stato gestire da solo uno qualsiasi di questi problemi?

In secondo luogo, il problema non sono le Regioni, ma che tipo di autonomia esse debbano esercitare. È del tutto evidente che questioni fondamentali non si possano risolvere con 21 leggi diverse (19 regionali, più le due delle province autonome di Trento e Bolzano). Ma il punto è proprio che il senso delle Regioni non è la legislazione (peraltro già piuttosto ridotta sul piano quantitativo e del tutto appiattita su quello qualitativo), ma la capacità di relazionarsi con altri livelli di governo aumentando l’efficienza del sistema. Una Regione è tanto più utile ed efficace quanto più sappia gestire le sue funzioni in modo collaborativo con gli altri livelli di governo. È sul piano dell’amministrazione e del coordinamento che la Regione esercita la sua dimensione politica. La funzione oppositiva nei confronti di altri livelli (in primis lo Stato, ma in qualche caso anche l’Unione europea, o i Comuni) serve solo se centellinata e usata in modo eccezionale, quando vengono compiuti errori o comunque si voglia indurre ad una ulteriore riflessione portando argomenti e prospettive diverse – comunque la si pensi sul tema, un caso interessante è quello aperto da tempo tra il Land Tirolo e l’Unione europea sul transito e le politiche dei trasporti.

Per restare all’ambito sanitario, è solo di un paio di mesi fa il cosiddetto “Patto per la salute” (2019-2021) siglato da Governo e Regioni. Un esempio tra i molti di come le questioni siano complesse e possano essere risolte solo da una pluralità di attori. Purché sappiano coordinarsi. Vale per le regioni, ma anche per gli Stati.

Purtroppo la reazione dominante è quella che invoca l’autarchia, le scelte solitarie. Degli Stati come delle Regioni. La retorica banalizzante – e dunque centralista – è alimentata da posizioni poco meditate (anche nella comunicazione dei messaggi) e certamente da atteggiamenti altrettanto banalizzanti adottati da molte regioni, il cui personale politico non è certo immune (ci si perdoni il voluto gioco di parole) a questo modo di semplificare i problemi, finendo nei fatti per complicarli. E dandosi così nel lungo periodo, come si dice, la zappa sui piedi.