Ogni assemblea sociale, come ogni momento aggregativo proprio di un sistema umano fatto di relazioni e di rapporti, è attraversata da legami e fratture socio-culturali che via via emergono con chiarezza, rafforzandosi e strutturandosi, quando arriva il tempo della decisione.

La decisione finale che viene presa non è mai così il frutto di un atto puro, operato “sotto chiave”, ma è sempre l’effetto di una scelta mediata dal modo di comporsi e scomporsi di questi legami, cleavages, interessi, posizioni e convinzioni, che – appunto - sono rappresentati all’interno di quel consesso.

Anche il Conclave non è esente da questa semplicissima constatazione di teoria sociale. E dunque, per capire fino in fondo il senso delle congregazioni generali, al di là delle caratteristiche proprie di quel tipo di riunioni preparatorie – in primis quelle di un momento liturgico e di preghiera in comune - è necessario cercare di far emergere quali fratture e legami culturali e di visione politica-ecclesiastica è possibile rinvenire in vista del Conclave, che con buone probabilità avrà inizio la prossima settimana.

Pur senza considerare così determinanti le briciole delle caratteristiche e degli interessi umani che pur colorano e orientano il plenum dei cardinali nel comporre la decisione finale, ogni Conclave vive di dinamiche politico-sociali (di fratture, di legami) che poi, a distanza di tempo, ci consentono di cogliere appieno il senso di una elezione pontificia, proprio perché pubblicamente emergono le ragioni di una scelta (basta leggere, ad esempio, il volume di Alberto Melloni sul Conclave o quello del viceprefetto della Biblioteca apostolica vaticana Ambrogio Piazzoni sulla storia delle elezioni pontifice).

La più recente storia della Chiesa, in seguito alla scelta di Giovanni XXIII di indire nel gennaio 1959 il Concilio Vaticano II (poi proseguito sotto la guida di Paolo VI), ci ha presentato una nota dominante che ha caratterizzato, oltre le ragioni mondane di un approccio politico o geopolitico sempre presente (la Chiesa – intesa come Santa Sede, in primis - è global player nel potere del mondo), pure le scelte di cultura teologico-ecclesiastica adottate dagli ultimi Conclavi: una visione della Chiesa costruita, nell’area dei problemi emersi dal Concilio, che si può riassumere, sinteticamente, nella dicotomia progressista/conservatrice.

Questa divisione, che qui forzo a fini esplicativi, è venuta a farsi più chiara e a rafforzarsi  nel momento in cui il vivo clima culturale post-conciliare ha dato vita, in tempi diversi, a due riviste internazionali di teologia: “Concilium”, fondata nel 1965, tra gli altri, da Karl Rahner, Hans Küng, Yves Congar, Edward Schillebeeckx, Johann Baptist Metz e Gustavo Gutiérrez, che rappresenta la fucina del pensiero più aperto, ecumenico e a dimensione internazionale, attento alla ricerca del "segni dei tempi"; “Communio”, fondata nel 1972 da Joseph Ratzinger, insieme con Hans Urs von Balthasar ed Henri de Lubac, più attenta alla tradizione e considerata da molti più “conservatrice”.

Due riviste infatti che hanno rappresentato, e in buona parte a tutt’oggi ancora rappresentano, quell’arena teologico-culturale che è linfa delle visioni che ciascun cardinale, elettore o meno, proprio in questi giorni sta esprimendo nelle congregazioni generali.

Eppure, se nei Conclavi che elessero Albino Luciani e Karol Wojtyla queste distinzioni ebbero un loro peso, così come le due concezioni della Chiesa condensate nelle due riviste, al momento sembrano pesare meno.

Certo non perché sia sparita la distinzione assiologica che, nella comune appartenenza alla Chiesa, guida le scelte di chi si sente ispirato da essa; quanto perché il richiamo all’attuazione o alla mancata attuazione di molti dei temi del Concilio, trova un fatto storico evidente e imprescindibile: i due pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, che in realtà si possono leggere anche come un solo lungo pontificato (dal 1978 al 2013), ci consegnano una Chiesa nella quale la linea teologico-culturale di “Communio” ha improntato di sé e conformato con molta forza la Chiesa e proprio quei suoi primi prìncipi, i cardinali, che oggi sono chiamati a scegliere il successore di Benedetto XVI.

Naturalmente, non vi è alcun automatismo. Ma è chiaro l’imprinting di un solco dottrinale che, ben fortificato innanzitutto dallo stesso cardinale Ratzinger nella sua veste di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede durante il pontificato di Giovanni Paolo II, oggi è largamente maggioritario.

Tutto parrebbe dunque potersi dire risolto così. Eppure, proprio nel momento in cui il posizionamento teologico-culturale alimentato e rafforzato da “Communio” sembra essersi consolidato al vertice della Chiesa, la scelta di Ratzinger di rinunciare al soglio pontificio consente di vedere invece come proprio quel consolidamento dottrinale sembra essere meno granitico di fronte a diversi cleavages che, a quanto pare, stanno emergendo nelle congregazioni.

Visioni e interpretazioni definite e delineate su assi diversi, più globali. Dove le differenze di letture da dare al Concilio e alla sua eredità, vengono interpretate e filtrate da un filtro di modernità molto più dirompente di prima. E dove, soprattutto, un’idea tradizionalista della Chiesa, espressa appunto da “Communio”, sembra perdere strumenti capaci di interpretare e di rispondere adeguatamente alle sfide di una Chiesa che abbisogna “di più vigore”, appunto come Benedetto ha ricordato nel suo annuncio di rinuncia ai cardinali.

Per dirla in altri termini, i problemi della Chiesa stanno facendo emergere tutti gli affanni di una teologia tradizionalista che, cristallizzata da decenni, non riesce a dare adeguate risposte ai nuovi bisogni di una Chiesa sempre più immersa nella modernità (si pensi, ad esempio, al ruolo del laicato nella Chiesa, un tema pressoché assente negli ultimi trent’anni…).

Quale futuro? Vedo emergere tre tematiche, che sono al tempo stesso teologico-ecclesiastiche ma anche fortemente ancorate a bisogni “terreni” della Chiesa, tutte comunque capaci di incrinare pesantemente – e positivamente, a mio avviso - la linea teologico-culturale di tradizione sostenuta in questi ultimi decenni: a) una forte pressione per una riforma della Curia e del governo tout court della Chiesa verso una maggiore e migliore collegialità, anche alla luce della relazione predisposta dal presidente del Pontificio consiglio per i testi legislativi, il card. Coccopalmerio; b) una forte pressione per una maggiore trasparenza che consenta quindi un recupero di credibilità interna, oltre che esterna nel riverbero pubblico e mediatico, nel governo dell’economia della Chiesa e dei fondi dei credenti, anche alla luce del rapporto predisposto su richiesta del Papa Benedetto XVI dai cardinali Herranz, Tomko e De Giorgi; c) una forte pressione per affrontare con coerenza e forza i temi più socialmente sensibili, in primis quello della pedofilia (e più latamente dell’omosessualità), non da ultimo perché, come segnalava di recente proprio su “Concilium” la teologa Hille Haker, tedesca a Chicago, non si capisce perché la Chiesa si prenda cura delle vittime degli abusi e della violenza sessuale in proporzione in modo molto inferiore di quanto, invece, tratti e si applichi intorno al tema della morale del matrimonio.

Se la rinuncia al ministero petrino e la sua palese “umanizzazione”, con le conseguenti forti critiche che anche alcuni cardinali hanno mosso pubblicamente (si pensi, ad esempio, a quelle del cardinale australiano Pell), potranno portare la Chiesa a un chiaro dibattito su questi temi durante le congregazioni generali in vista del prossimo Conclave, l’eredità di Benedetto XVI, alfiere di una visione più tradizionale e identitaria nell’interpretazione teologica della Chiesa, aprirà davvero porte nuove nel pontificato che verrà, capaci di rivedere alcuni modi di leggere la dottrina ormai davvero poco comprensibili.