Oggi Willy Brandt, cancelliere della Repubblica Federale Tedesca negli anni Settanta, avrebbe compiuto cento anni. Se n’è andato invece due decenni fa, in tempo per assistere al crollo del Muro che aveva sfregiato per un ventennio la sua Berlino; e per festeggiare la riunificazione della Germania, per cui aveva lavorato in modo così diverso dai suoi predecessori. In quest’ultima occasione molti fotografi avevano carpito la viva commozione sul volto dell’ex cancelliere.

Più in generale, sembra che il destino ne abbia fatto un protagonista privilegiato per fotogrammi che hanno condensato la storia recente, e certo a simili occasioni celebrative egli non si è mai sottratto. Il più celebre è indubbiamente legato agli interminabili secondi durante i quali Brandt decise all’improvviso di rompere col rigido cerimoniale della visita a Varsavia nel 1970, e di inginocchiarsi in raccoglimento di fronte al monumento che commemorava gli eroi ebrei insorti contro gli occupanti tedeschi, e per questo massacrati. Spettava al nuovo cancelliere del dialogo con l’Est, presto universalmente definito “Ostpolitik” (politica orientale), fondare quel nuovo rapporto sull’assunzione di responsabilità collettiva per la barbarie del Reich hitleriano. Il senso di una missione storica e la coscienza dei doveri di un leader facevano sì che a chiedere perdono per un intero popolo fosse proprio chi era libero da responsabilità dirette.

Spettava al nuovo cancelliere del dialogo con l’Est, presto universalmente definito “Ostpolitik” (politica orientale), fondare quel nuovo rapporto sull’assunzione di responsabilità collettiva per la barbarie del Reich hitleriano

Più di trent’anni prima, da giovane socialdemocratico, Brandt aveva contrastato l’ascesa nazista in patria e in clandestinità, per poi seguire un destino comune a tanti verso la Spagna repubblicana in preda alla guerra civile. Braccato dalle fiamme che divoravano l’Europa, aveva riparato in Norvegia e da lì in Svezia, quando anche la sua nuova “patria” era caduta sotto l’occupazione nazista. Soltanto dopo la capitolazione Brandt era tornato in Germania, ridotta a un cumulo di macerie fisiche e morali, per offrire le proprie energie intellettuali alla rinascita del Paese nella democrazia e in quella pace che, a suo dire, “non è tutto”, ma senza cui “tutto è niente”.

Ad attenderlo c’era il nuovo conflitto della Guerra Fredda, che ben presto sembrò configurare un destino di divisione per il Paese, per metà occupato dall’Unione Sovietica e presto sottoposto a un nuovo regime “democratico popolare”, e per l’altra libero di decidere democraticamente il proprio futuro, pur nei limiti che gli occupanti-alleati occidentali gli imponevano. Destino simile era toccato all’antica capitale Berlino, di cui Brandt divenne sindaco per quasi un decennio: la sua parte occidentale, difesa come un’isola di libertà in territorio ostile, costituiva un approdo troppo appetibile per chi desiderava sfuggire ai rigori del regime comunista. Queste ultime si risolsero a circondare la “Berlino libera” con un muro nel 1961, al fine di stroncare l’emorragia di uomini verso occidente.

Tante immagini ritraggono Brandt intento a frenare la rabbia dei giovani, a persuaderli che “il muro non sarebbe stato abbattuto a colpi di testa”, a rassicurare i cittadini sulle prospettive di sopravvivenza, o semplicemente ad assistere attonito all’edificazione inesorabile del simbolo stesso della divisione dell’Europa. Proprio in quei giorni egli maturò la convinzione che una perenne contrapposizione non avrebbe avvicinato la fine della divisione tedesca, quanto piuttosto la ricerca del dialogo, della collaborazione e dello scambio: soltanto così si sarebbero alleggerite le difficili condizioni di chi viveva oltre la cortina di ferro, e si sarebbe instillassero il “germe” del mutamento verso una società pluralista e democratica anche ove questa sembrava lontana da venire.

Tante immagini ritraggono Brandt intento a frenare la rabbia dei giovani, a persuaderli che “il muro non sarebbe stato abbattuto a colpi di testa”, o semplicemente ad assistere attonito all’edificazione inesorabile del simbolo stesso della divisione dell’Europa

Divenuto cancelliere nel 1969 (il primo socialdemocratico dai tempi precedenti l’ascesa di Hitler), Brandt avrebbe dato il via alla “Ostpolitik” con questo spirito: al di là delle immagini che lo ritraggono in atteggiamenti amichevoli con i leader comunisti dell’Est, gli accordi che essi siglarono prevedevano per la prima volta scambi culturali e professionali, incontri tra studenti, storici, sportivi, nella convinzione che la conoscenza reciproca e il confronto siano da sempre un eccellente antidoto allo scontro. Nulla fu facile, vista l’opposizione delle forze conservatrici in patria e i “sospetti” all’estero di una possibile rinascita tedesca; eppure una vasta opinione pubblica internazionale riconobbe nella Ostpolitik una politica praticabile per uscire dalla Guerra Fredda, al punto da meritargli il Premio Nobel per la pace nel 1971.

Ironia della sorte, la fotografia più amara della sua carriera ritrae Brandt costretto alle dimissioni dopo che una spia tedesca orientale fu scoperta nel suo seguito soltanto pochi anni dopo. Ma la rinuncia agli incarichi governativi non significò l’abbandono delle ragioni perseguite fino a quel momento; fino a quando il crollo largamente pacifico e sorprendentemente rapido dei regimi dell’est sembrò a molti confermare la validità della sua Ostpolitik.

Sullo sfondo delle istantanee qui appena ricordate, si staglia ancora oggi il profilo di quel viaggio terribile e grandioso che è stato il ventesimo secolo. Del quale Brandt ha rappresentato per molte ragioni un protagonista a pieno titolo, e da cui ci giunge ancora la sua esortazione a “osare più democrazia”, al coinvolgimento e alla partecipazione, come antidoti contro ogni forma di crisi sociale e involuzione autoritaria.