Dopo che il governo aveva manifestato una certa contrarietà all’introduzione del reddito minimo di cittadinanza, la proposta del ministro Poletti di prevedere 320 euro per le famiglie più indigenti appare come un parziale ripensamento. Certo, siamo ancora lontani da quel reddito di cittadinanza che in molti Paesi europei rappresenta la misura strategica delle politiche di solidarietà. E tuttavia la strada è la stessa e costituisce una indubbia novità, che può rappresentare un utile spunto di riflessione sulla cultura politica del Pd.

Tradizionalmente considerata una felice conquista della socialdemocrazia europea, il reddito di cittadinanza è tutt’altro che estraneo anche alla riflessione liberale. E certamente la grande tradizione dell’economia sociale di mercato (tra gli altri, Wilhelm Röpke, Ludwig Erhard, Konrad Adenauer, e lo stesso Luigi Einaudi) può costituire, anche per questa proposta, un ottimo terreno di incontro tra liberali e socialisti. Gli esponenti di questa corrente di pensiero, che anche come uomini politici hanno dato un contributo inestimabile alla rinascita dell’Europa nel secondo dopoguerra, hanno definito un «interventismo liberale» (Einaudi) a favore dei meno abbienti, che si articola su due piani: interventi «sul mercato», attraverso una «politica della concorrenza», e interventi «fuori dal mercato», per migliorare le chance di vita dei più svantaggiati.

L’intervento dello Stato sul mercato deve porre «la ricerca imprenditoriale del profitto al servizio diretto del consumatore» (F. Böhm). Il nucleo di questa «politica della concorrenza» è rappresentato dalla lotta contro i monopoli e gli oligopoli, fonte di «sfruttamento, privilegi, restrizione dell’offerta e della produzione, disoccupazione cronica, aumento del costo della vita, inasprimento dei contrasti sociali» (Röpke). Riducendo il potere di scelta dei consumatori, annullando l’incentivo all’innovazione rappresentato dalla concorrenza e imponendo i prezzi dei beni e servizi, i monopoli sono «il nemico numero uno dell’economia libera», fonte di «disuguaglianze sociali», poiché consentono di realizzare profitti che in realtà sono «un ladrocinio commesso ai danni della collettività» (Einaudi).

I teorici dell’economia sociale di mercato non esitano a sostenere che lo Stato debba essere «autorevole e imparziale», «forte» ma «non affaccendato» (Röpke), in grado di imporre un «ordine costituzionale» per difendere l’economia di mercato da quelle degenerazioni (monopoli, oligopoli, rendite protette, derive plutocratiche, speculazioni di ogni tipo), che penalizzano i più deboli, a cui è inevitabilmente sottoposto il «capitalismo storico» (Röpke). Ma la politica della solidarietà esige anche interventi «fuori dal mercato» per garantire condizioni minime a coloro che non sono in grado di competere. In nome del «primato dell’etica» sull’economia, i teorici dell’economia sociale di mercato sono arrivati a proporre una legislazione sociale che «avvicini, entro i limiti del possibile, i punti di partenza» degli individui (Einaudi). Ogni uomo, scrive Einaudi, «dovrebbe poter contare sul minimo necessario per la vita», disponendo di un reddito minimo che non lo induca all’ozio, che «non sia un punto di arrivo ma di partenza; una assicurazione data a tutti perché tutti possano sviluppare le loro attitudini». «Assicurare un reddito minimo a tutti, o un livello sotto cui nessuno scenda quando non può più provvedere a se stesso - ha spiegato F. von Hayek - non soltanto è una protezione assolutamente legittima contro rischi comuni a tutti, ma è un compito necessario della Grande Società in cui l’individuo non può rivalersi sui membri del piccolo gruppo specifico in cui era nato».

È bene precisare che questa proposta non solo non è in contrasto con la logica della concorrenza, ma serve proprio a potenziarne le capacità di innovare e di generare progresso ed equità, e questo per due precise ragioni: a) garantendo un sostegno economico ai più svantaggiati, si amplia la platea dei soggetti in grado di competere e quindi di arricchire con le proprie risorse conoscitive e materiali l’ordine concorrenziale, il quale in questo modo potenzierà la propria capacità di problem solving; b) assicurando un reddito minimo a tutti, si rinsalda quell’ambiente etico e sociale che è un presupposto fondamentale per il buon funzionamento del mercato e della democrazia.

Il dibattito che si sta sviluppando sul reddito di cittadinanza può quindi essere un’ottima occasione per la sinistra per fare i conti con questa grande tradizione di pensiero, che oggi può essere considerata un punto di riferimento per una sinistra liberale e post-ideologica, né liberista né statalista, che intenda coniugare libertà e uguaglianza, diritti sociali ed economia di mercato, capitalismo e stato di diritto, produzione e distribuzione della ricchezza.

Il richiamo sempre più frequente nella sinistra europea alla necessità di combattere le degenerazioni speculative dell’economia di mercato e di rimettere al suo centro la persona, è proprio il nucleo fondamentale su cui hanno insistito questi intellettuali. Röpke non ha esitato a definire quella tracciata dall’economia sociale di mercato una «terza via» (rispetto all’economia pianificata e al liberalismo del laissez-faire), liberale e solidale, ispirata a un «umanesimo economico», che mette al centro dell’organizzazione economica e dell’intervento politico la persona umana e che assegna allo Stato il compito di aiutare i più deboli nell’ambito di una economia di concorrenza.

È qui solo il caso di accennare al fatto che, al di là di vecchi pregiudizi, i principi dell’economia sociale di mercato consentono di stemperare non poco la contrapposizione storica tra liberali e socialisti. Non è azzardato affermare, infatti, che autori come Eucken, Erhard, Müller-Armack, Röpke e lo stesso Einaudi, non solo si pongono in sintonia ideale con gli ideali del liberalsocialismo di coniugare libertà individuale e giustizia sociale, ma danno sostanza economica e giuridica a quello slancio etico-politico che, in autori come ad esempio Rosselli, Calogero, Salvemini, Calamandrei, era rimasto troppo spesso ad un livello eccessivamente astratto di enunciazione di principi.