La Chiesa francese ha dimostrato di saper negare in modo unico i problemi che deve affrontare, per lo meno pubblicamente. Nel 2005, in occasione della pubblicazione da parte del Vaticano dell’istruzione sull’ordinazione di seminaristi omosessuali, i vescovi francesi affermarono sia pubblicamente sia privatamente che il documento si rivolgeva principalmente ad altri Paesi. Quest’anno, con la pubblicazione motu proprio del Traditionis custodes che limita la celebrazione delle cosiddette messe in latino, nonostante il ruolo di primo piano delle comunità francesi nel movimento tradizionalista, il segretario della Conferenza episcopale ha affermato contro ogni evidenza che la decisione riguardava principalmente situazioni diverse da quella francese. L’origine di queste reazioni non è difficile da individuare. Misuratasi più di altre con un duro regime di laicità nonché un anticlericalismo più aggressivo che in altri Paesi, la Chiesa fille aînée della Chiesa di Roma ha tendenzialmente gestito i suoi problemi a livello interno, al punto che il suo episcopato si è talora convinto di una logica di immunità alle difficoltà che attraversano la Chiesa universale.

La gestione della crisi di abusi sessuali fa in un certo senso eccezione, ma in dato senso soltanto. D’altra parte, resta paradigmatica. Nel 2018, l’episcopato francese ha accettato di intraprendere un’operazione verità sulla realtà degli abusi sessuali su minori commessi da membri del clero dopo il 1950. Altri episcopati nel mondo, a cominciare ovviamente da quelli italiano e spagnolo, non hanno ancora preso atto della necessità di confrontarsi con il passato e il presente degli abusi sessuali. Ciò sta costando molto all’episcopato francese; la diffusione del rapporto, dovuta in particolare alla portata del fenomeno che ha rivelato, avrà un impatto duraturo sul futuro prossimo del cattolicesimo francese. Il contenuto del rapporto conferma che la crisi degli abusi va a concludere un ciclo apertosi negli anni Ottanta e a rivelare le carenze sistemiche dell’organizzazione ecclesiale messa in piedi allora, che gran parte del clero e dei cattolici francesi vedeva come una soluzione alla «crisi cattolica» degli anni Settanta. Allo stesso tempo, ed è lo stesso rapporto a sottolinearlo, la scelta di fare verità sugli abusi sessuali è una necessità che si è imposta ai vescovi e ai cattolici di Francia, più che il risultato di un processo ecclesiale di esame, di verità e di penitenza. Né le realtà che i membri della Chiesa affrontavano nelle loro diocesi, né le richieste delle associazioni di vittime di abusi, né le lezioni dei rapporti olandesi, belgi, tedeschi, o delle inchieste americane e australiane, si erano rivelate sufficienti. È sotto la minaccia di un’inchiesta senatoriale e sotto la pressione dell’opinione pubblica, in particolare intorno al processo al cardinale Barbarin per la mancata denuncia degli atti di pedofilia di don Bernard Preynat, che l’episcopato e i responsabili delle congregazioni regolari hanno incaricato Jean-Marc Sauvé, un alto funzionario cattolico, a guidare l’inchiesta che è stata loro consegnata il 5 ottobre scorso.

La scelta di fare verità sugli abusi sessuali è una necessità che si è imposta ai vescovi e ai cattolici di Francia, più che il risultato di un processo ecclesiale di esame, di verità e di penitenza

Resta il fatto che il lavoro della commissione costituirà una pietra miliare: in esso si dà voce alle vittime, si apre finalmente la possibilità della loro considerazione, si offre alla Chiesa l’urgente opportunità di ascoltarle. La raccolta delle loro coraggiose testimonianze segna in qualche modo la prima pietra, in quella che è (stata) la loro casa, in quelle che sono (state) le loro mura, di quel «monumento» e quel «nome» di cui si parla nel libro biblico di Isaia (56,5) e che, oltre alla riparazione, sono loro dovuti.

Quanto al rapporto, non senza le relative consegne, esso offre un’importante riflessione sul passato, sul presente e sulle condizioni future. Anche alcuni vescovi di Francia vedono chiaramente che si tratta di un’opportunità per la Chiesa, nonostante esso sottolinei che la realtà degli abusi abbia continuato a essere sottovalutata e che vescovi e superiori di congregazioni abbiano avuto un ruolo in questa sottovalutazione, se non negazione, cronica. È necessario anche che inizi un vero e proprio processo, e che il resoconto sia ben considerato per ciò che è: un primo inventario e solo un punto di partenza.

Perché in effetti le domande poste dal rapporto sono numerose. Come lo sono i suoi punti ciechi. E la volontà di non cambiare nulla non è meno forte. Il lavoro della commissione Sauvé ha permesso di mettere in luce la massiccia realtà degli abusi in ambito ecclesiale. L’indagine demografica generale, ampiamente sottolineata dai membri della commissione come la parte statisticamente più attendibile del rapporto, ha permesso di evidenziare il carattere massivo del fenomeno degli abusi di minori e persone vulnerabili in ambito ecclesiale dal 1950 in poi (circa 330.000 vittime ancora in vita, di cui 216.000 abusate da chierici). Queste cifre, che vanno dapprima viste come ordini di grandezza, sono molto al di sopra di quanto mostrato dalle indagini precedenti. A eccezione della commissione olandese, nessun’altra inchiesta aveva utilizzato questo strumento, che permette più degli archivi di abbattere i muri di silenzio, e di cui in futuro sarà difficile fare a meno. D’altro canto, il dato di circa 3000 chierici abusatori (corrispondente a meno del 3%), desunto dalle rilevazioni d’archivio, è stato curiosamente mantenuto nel rapporto di sintesi, quando risultano più credibili e coerenti con i dati di questa indagine e con quanto si sa di abusi in quelle che l’hanno preceduta gli scenari accennati altrove in merito a una quota di preti abusatori compresa tra il 5% e il 7%. Inoltre, sottolineando che la prevalenza degli abusi diminuisce tra il 1970 e il 1990, e in seguito si stabilizza, l’indagine mette in discussione talune narrazioni sui progressi costanti della comunità cattolica nella gestione degli abusi.

Non cedere alla tentazione di sottovalutare e riscrivere la storia è tanto più essenziale in quanto il rapporto tralascia un certo numero di interrogativi sulla storia e sulla creazione di uno spazio che rende possibili gli abusi. Tre mi sembrano essenziali:

Primo, focalizzandosi sull’abuso di minori o di persone vulnerabili (secondo il perimetro della missione voluta dai vescovi e dai superiori delle congregazioni religiose), in definitiva il rapporto non giunge alla valutazione del fenomeno né può realmente rendere conto del continuum di abusi (morali, spirituali, sessuali) e della logica di dominio che fondano lo spazio che li rende possibili e l’imposizione del silenzio alle vittime.

Secondo, il rapporto evidenzia il fallimento della svolta di inizio XXI secolo. Per più di quindici anni, malgrado la pubblica diffusione di notizie di violenze sessuali commesse nella Chiesa cattolica in altre parti del mondo, e malgrado la crescente presa di parola delle vittime, l’episcopato cattolico ha reagito tardi. Questo storico rapporto sottolinea la crudeltà dell’indifferenza dei vescovi francesi, ma li riduce a un misto di ingenuità e volontà di preservare l’istituzione. Lascia per lo più da parte l’eventualità di connivenze più gravi, in particolare la questione dell’esistenza di vescovi abusatori o la promozione di abusatori all’episcopato, che un giorno dovrà essere chiarita. Né evoca in modo sufficientemente diretto la scelta di alcuni vescovi di tutelare molti abusatori non solo per la reazione di proteggere l’istituzione, ma anche per la difficoltà di liberarsi di una percezione ideologica della denuncia degli abusi, nello specifico leggendola o avendola letta soprattutto in relazione a un conflitto interno alla Chiesa cattolica.

Terzo, il rapporto mostra molto bene come una logica del silenzio sia stata stabilmente imposta alle vittime, rendendo più difficile la loro presa di parola. Un silenzio resta tuttavia poco evocato, quello sulla sessualità dei preti. Evidenziando il carattere massivo dei crimini sessuali commessi in contesto ecclesiale, il rapporto apre una porta sul carattere non meno massivo del mancato rispetto delle norme sessuali proclamate dal clero cattolico di una parte significativa dello stesso clero. Ora, il silenzio di cui godono gli abusatori è anche il silenzio solidale di gran parte del clero cattolico sulle sessualità clericali ed episcopali. La rottura di questo silenzio è una delle condizioni per rompere le solidarietà che hanno protetto gli abusatori. Che il clero e molti laici francesi, più impegnati di altri nelle crociate anti-gender, per esempio, abbiano gli strumenti e la volontà di realizzare questa rottura è tutt’altro che certo.

Il rapporto mostra molto bene come una logica del silenzio sia stata stabilmente imposta alle vittime, rendendo più difficile la loro presa di parola. Un silenzio resta tuttavia poco evocato, quello sulla sessualità dei preti

La speranza resta e il rapporto non la soffoca. Occorre riconoscere all’episcopato francese il merito di averlo infine voluto, sebbene non proprio a cuor leggero. Il lavoro resta immane, e una delle difficoltà è che richiede di rompere con griglie analitiche le narrazioni sulla Chiesa, i suoi rapporti con la società, il suo clero (e specialmente l’alto clero), nelle quali la Chiesa di Francia, forse più di altre nel cattolicesimo globale, sembra impigliata.

 

[Traduzione di Antonio D. Ballarò]