Negli ultimi anni il mercato occupazionale italiano è andato incontro a un processo di profonda trasformazione socioculturale che ha coinvolto attivamente le donne. Si tratta però di un cammino lento, intralciato da ostacoli di diversa natura. Un’analisi dei dati più significativi può essere utile per capire dove si è giunti e quanta strada rimane da percorrere (per approfondimenti si veda un recente studio Inps).

Nel 2012 il tasso di occupazione femminile nella fascia di età 15-64 era del 47%, dieci anni dopo esso ha raggiunto circa il 51%. Un incremento modesto, che molto dice delle difficoltà che le donne incontrano nel mercato del lavoro, prima fra tutte quella di entrarvi. Il mondo del lavoro rimane soprattutto maschile, basti pensare che l’Italia presenta il gap occupazionale di genere più alto tra i Paesi europei, con una differenza di circa 18 punti percentuali contro una media Ue di circa 10 punti.

Inoltre, le donne continuano a trovare impiego in settori specifici e in un range limitato di occupazioni rispetto ai loro colleghi uomini. Nel settore privato, il tasso di femminilizzazione, calcolato come la percentuale di donne lavoratrici rispetto al totale degli occupati, è passato dal 41,4% del 2012 al 41,7% del 2022. Il settore pubblico, già caratterizzato da una forte presenza femminile, ha visto un ulteriore rafforzamento di questa tendenza, con il 68% degli occupati di sesso femminile (rispetto al 64% del 2014). Oltre alla ben nota concentrazione delle donne nel pubblico impiego, un’analisi più dettagliata dei dati evidenzia come all’interno dei macro settori pubblico e privato le donne tendano a trovare occupazione in settori caratterizzati da bassi salari e limitate opportunità di carriera, come quello dei servizi. Se si guarda al settore privato si nota, ad esempio, come il tasso di femminilizzazione nel manifatturiero, nel decennio preso in esame, sia rimasto sostanzialmente stabile e intorno al 29-30%.

Più incoraggianti i dati che emergono osservando il tasso di femminilizzazione dei settori agli estremi della distribuzione delle retribuzioni medie annue. Nel settore degli alloggi/ristorazione, in fondo alla classifica, si è passati dal 56% del 2012 a circa il 53% del 2022. Mentre nel settore della finanza e delle assicurazioni, nella parte alta della distribuzione, si osserva un miglioramento di circa 3 punti percentuali. Se ci concentriamo sul settore pubblico, notiamo che nel comparto della scuola, che offre le retribuzioni più basse del settore (e che impiega circa la metà delle donne occupate nel pubblico), il tasso di femminilizzazione è rimasto costantemente intorno al 79% nel periodo compreso tra il 2014 e il 2021 (per cui abbiamo disponibilità di dati). Tuttavia, è cresciuta anche se di poco la presenza femminile nel sistema sanitario nazionale e nelle università, ambiti che, invece, sono contraddistinti da salari medi più elevati.

L’Italia presenta il gap occupazionale di genere più alto tra i Paesi europei, con una differenza di circa 18 punti percentuali contro una media Ue di circa 10 punti

Piccoli passi in avanti anche se si esamina l’andamento della presenza femminile nelle posizioni apicali. Nel settore privato, nel 2012, la percentuale di donne tra i quadri e i dirigenti era di circa il 14%, mentre nel 2022 è salita al 21%. Un incremento un po’ più significativo, rispetto a quelli evidenziati in precedenza, ma ancora troppo poco considerato, visto che il gap retributivo a questo livello anziché diminuire è aumentato: era di circa il 20% nel 2012 ed è cresciuto al 22% nel 2022.

Non molto meglio se si allunga lo sguardo e si esamina l’andamento del gap retributivo medio per tutte le categorie di lavoratori. Nel settore privato il gap salariale “grezzo”, cioè quello che si ottiene da un semplice confronto delle retribuzioni percepite da uomini e donne, dal 2012 al 2022 si è mantenuto intorno al 30%. Stabile a circa il 12% anche il gap “condizionato”, che deriva da un confronto a parità di caratteristiche individuali e occupazionali (età, esperienza, tipologia contrattuale, qualifica, giornate lavorate, impresa ecc.) e che compara, quindi, lavoratori occupati nella stessa impresa, con la stessa qualifica e con la stessa tipologia contrattuale. Ciò indica che in dieci anni non è cambiato quasi nulla e che le donne a parità di caratteristiche osservabili ricevono salari più bassi di circa il 12%.

Si progredisce quindi a grande fatica e in qualche caso addirittura si arretra. È questo il caso del part-time, dove, anziché registrare un miglioramento, si osserva un preoccupante trend crescente. Mentre nel 2012 la percentuale di donne impiegate in lavori part-time nel settore privato era del 43%, nel 2022 questa percentuale è salita al 49%. Si noti, inoltre, che in alcune regioni del Sud l’incidenza del part-time tra le donne ha superato o è intorno al 60% (64,3% in Calabria, 63,7% in Sicilia, 58,9% in Puglia, 58,1% in Campania). Si tratta di un dato che merita una riflessione approfondita, poiché evidenzia due questioni di rilevanza critica, che possono costituire ostacoli significativi per il raggiungimento della parità di genere sul posto di lavoro. Da un lato, le donne, essendo responsabili della maggior parte dei compiti di cura per i minori e gli anziani, sono indotte a scegliere contratti part-time. Si tratta però di una “via bassa” alla conciliazione tra sfera privata e professionale, che è allo stesso tempo frutto delle disparità di genere e causa delle stesse e comporta un notevole sacrificio in termini di salario e opportunità di crescita professionale, e che si ripercuote anche dopo la fine della vita lavorativa nei redditi pensionistici. Dall’altro lato, percentuali così alte di part-time tra le donne potrebbero segnalare una realtà (almeno parziale) di part-time involontario; nonostante il desiderio di lavorare a tempo pieno molte donne potrebbero non riuscire ad accedere a questa tipologia contrattuale.

Le donne, essendo responsabili della maggior parte dei compiti di cura per i minori e gli anziani, sono indotte a scegliere contratti part-time

Da una parte, quindi, la sfida della conciliazione tra vita lavorativa e famigliare e, dall’altra, quella di accrescere il potere contrattuale delle donne, di fare in modo che le competenze di cui dispongono le mettano sul lato corto del mercato piuttosto che su quello lungo. Due sfide che per poter essere vinte richiedono sì investimenti (ad esempio nei servizi all’infanzia e nell’istruzione), ma anche un cambiamento culturale che permetta sia una più equa ripartizione dei carichi familiari nell’ambito della coppia, sia il superamento di stereotipi che ancora oggi impediscono alle donne di immaginare carriere in ambiti tradizionalmente maschili, come quelli Stem, che permettono di acquisire competenze ad alta domanda da parte delle imprese.

Senza questo cambiamento il passo continuerà a essere lento. La parità di genere, meta verso cui questo cammino è diretto, non può essere considerata un traguardo naturale o scontato. L'indipendenza economica delle donne rappresenta un cambiamento che produce implicazioni complesse su più dimensioni della vita individuale e sociale. Una certa resistenza, anche inconsapevole, è quindi attesa. Essa deve però essere superata: il raggiungimento della parità di genere sul mercato del lavoro porta vantaggi importanti non solo per le donne ma anche a livello sociale, in termini di crescita economica e di sostenibilità del sistema pensionistico di fronte alle sfide poste dal declino demografico in atto. Non si tratta, pertanto, di una partita con vincitori e vinti, ma uno di quei casi in cui si vince tutti.