Il fatto che la passione globale per il guacamole messicano possa determinare le strategie dei narcotrafficanti colombiani e al tempo stesso minacciare l’habitat degli elefanti in Kenya sembrerebbe a prima vista – oltre che una declinazione alimentare del famoso "effetto farfalla" – un sintomo delle perverse dinamiche del mondo contemporaneo, globalizzato e interconnesso.

In realtà, né la circolazione globale di alimenti né il loro nesso profondo con vaste dinamiche economico-politiche sono fatti nuovi, esclusivi dei nostri tempi. Lo ha magistralmente dimostrato l’antropologo americano Sidney Mintz nella sua Storia dello zucchero – la cui edizione originale del 1985 recava il titolo, ben più accattivante e significativo, di Sweetness and Power – laddove rivelava le connessioni tra l’apprezzamento degli inglesi per il tè zuccherato, lo sviluppo industriale britannico e le condizioni di lavoro dei coltivatori nei lontani Caraibi.

Se già nel Medioevo il gusto per le spezie in quanto elemento di distinzione sociale aveva dato impulso a reti commerciali che connettevano l’Europa al Sudest asiatico, non vi è alcun dubbio che l’ampliamento su scala letteralmente planetaria della circolazione di cibi sia stato determinato dalla scoperta europea dell’America. La devastante impresa coloniale intrapresa dalle potenze europee sin dallo scadere del XV secolo dette infatti avvio a flussi globali di piante, animali (e germi) come parte di un processo che lo storico Alfred Crosby battezzò nel 1972 come "scambio colombiano". Come è noto, si trattò di uno scambio tutt’altro che pacifico e indolore per i popoli indigeni americani, le cui pratiche culturali – non ultime quelle alimentari – vennero costantemente svalutate e disprezzate, paradossalmente accusando gli indigeni di "appetiti incontrollati" che in realtà sottendevano l’inestinguibile bramosia dei conquistatori europei. Nel 1524-25 il frate domenicano Tomás Ortiz scrisse che gli indigeni "mangiano carne umana, sono sodomiti più di ogni altra stirpe […], sono sudici come porci e mangiano pidocchi, ragni e vermi crudi dovunque li trovino". Così come ogni colonialismo, quello spagnolo e portoghese nelle Americhe impose nuovi regimi di commestibilità, nuove nozioni di purezza e moderazione, nonché un credo religioso il cui rituale eucaristico si fondava sul consumo di vino e di ostie di frumento, alimenti mai visti prima dagli indigeni. I paesaggi americani furono radicalmente trasformati dalla diffusione di animali europei come maiali, bovini e cavalli, moltiplicatisi esponenzialmente in quelle terre lontane. Alla produzione di cibo si legarono anche modelli economici coloniali dalla portata storica devastante, come nel caso delle piantagioni di canna da zucchero che per secoli supportarono la tratta degli schiavi africani. Insomma, se l’antropologia ci ha insegnato che il cibo è sia "buono da mangiare" sia "buono da pensare" potremmo aggiungere che è anche stato – ed è tuttora – "buono da e per colonizzare".

Il Nuovo Mondo, oltre a costituire il principale teatro del colonialismo occidentale nella prima età moderna, fu anche luogo di appropriazione di molteplici risorse, ivi incluse quelle alimentari

Il Nuovo Mondo, oltre a costituire il principale teatro del colonialismo occidentale nella prima età moderna, fu anche luogo di appropriazione di molteplici risorse, ivi incluse quelle alimentari. Quando le navi spagnole cominciarono ad approdare sulle coste americane, i loro equipaggi si trovarono di fronte a un universo alimentare sconosciuto, la cui radicale alterità era stata determinata da oltre diecimila anni di completo isolamento geografico. Sapori e odori mai sentiti colpirono i sensi di soldati e marinai appena sbarcati. Anzi, a leggere le cronache del tempo si direbbe che li colpirono ancor prima dello sbarco: secondo Juan Díaz, cappellano spagnolo imbarcato su una delle prime navi europee che abbiano mai toccato terra messicana, mentre veleggiava ancora a dieci miglia dalla costa dell’isola di Cozumel già si “olevano alcuni odori tanti suavi che era cosa maravigliosa”, cioè gli effluvi, reali o vagheggiati, di una terra che si immaginava prodiga e ubertosa.

Effettivamente, nelle terre americane abbondavano vegetali e animali che – oltre ad aver costituito per millenni la base di raffinate tradizioni gastronomiche indigene – erano destinati a cambiare per sempre gusti e pratiche alimentari dei consumatori europei, asiatici e africani: mais, patate, pomodori, peperoncini, fagioli, zucche, ananas, cacao e tacchini sono solo alcuni dei cibi con cui l’America indigena ha, per così dire, "conquistato" il mondo.

L’incontro tra universi alimentari, però, fu tutt’altro che facile, essendo spesso sotteso da diffidenze, difficoltà e disgusti. Nutrirsi di un cibo mai provato prima non è cosa facile: non solo bisogna adattarsi a nuovi a gusti e consistenze, ma bisogna anche capire come prepararlo, quando mangiarlo e con cosa abbinarlo. L’analogia con cibi noti fu la modalità prevalente mediante la quale gli europei "tradussero", sia in senso alimentare che linguistico, i cibi americani. Nel momento in cui i conquistatori spagnoli chiamarono “pollo (o pavone) d’India” il tacchino, resero consueto l’inconsueto, riuscendo a immaginare forme di preparazione e modalità di inclusione nella grammatica del pasto. Lo stesso avvenne, ad esempio, con i peperoncini definiti "pepe d’India", con i fagioli (chiamati così per l’affinità con i "fagioli con l’occhio" esistenti in Europa) o con zucche e zucchine (cioè le cucurbitacee, assimilate alla zucca Lagenaria consumata da millenni in Europa). Le cose si facevano più difficili quando era impossibile immaginare una buona analogia: nelle fonti spagnole del Cinquecento, ad esempio, le patate andine vengono denominate "tartufi"… Oppure le analogie potevano indurre diffidenza: sia le patate sia i pomodori vennero riconosciuti come solanacee, un genere di piante che gli Europei conoscevano nella forma di mandragora e belladonna, piante altamente tossiche. E lo stesso era avvenuto con le melanzane di provenienza asiatica, non a caso denominate mala insana, "mela tossica".

Analogie e diffidenze come quelle sin qui descritte determinarono i tempi di introduzione dei cibi americani in Europa e nel resto del mondo: tacchini, fagioli, peperoncini e cacao si diffusero già nel XVI secolo in Spagna e Italia, così come le arachidi presero presto piede in Cina grazie alla loro affinità con gli anacardi. Più lenta fu l’introduzione dei cibi più “difficili” come i pomodori (dapprima coltivati in orti botanici come piante ornamentali o esemplari destinati allo studio dei naturalisti), le patate o il mais. Questi ultimi due cibi si diffusero ampiamente solo nel XVIII secolo divenendo, grazie alla loro produttività, veri e propri "combustibili" del boom demografico europeo. In entrambi i casi, però, gli europei non seppero far tesoro dei saperi indigeni, pagandone amare conseguenze. Ignorando una semplicissima pratica indigena (detta nixtamalizzazione) che consiste nel mettere a mollo il mais in una soluzione di acqua e calce, la quale rende assimilabile una vitamina detta Pellagra preventing, gli europei che adottarono una dieta prevalentemente maidica soffrirono per secoli di pellagra, una malattia che ha mietuto milioni di morti e che era del tutto sconosciuta al mondo indigeno americano. Allo stesso modo, ignorando le tecniche di disidratazione inventate dai popoli andini, gli europei non seppero conservarle le patate, esponendosi così a crisi alimentari come quella che, innescata da un fungo delle patate, tra il 1845 e il 1849 devastò l’Irlanda.

La circolazione e il commercio globale dei cibi americani determinarono anche la creazione di nuovi luoghi di produzione che in qualche modo "usurparono" le Americhe dei loro prodotti

La circolazione e il commercio globale dei cibi americani determinarono anche la creazione di nuovi luoghi di produzione che in qualche modo "usurparono" le Americhe dei loro prodotti: ancora oggi quasi l’80% del cacao consumato nel mondo è prodotto in Africa e nel Sud Est asiatico, così come oltre il 90% della vaniglia, anch’essa di origine americana. E se consideriamo che oltre i due terzi dei consumatori di questi prodotti risiedono tra Europa e Stati Uniti ci rendiamo conto di quanto le dinamiche di stampo neocoloniale determinino i nostri consumi e di quanto lo scambio colombiano operi ancora a livello globale: la recente passione per la quinoa (uno pseudo-cereale andino) o per un "superfood" come l’alga spirulina (originalmente impiegata dagli Aztechi) ne sono recenti manifestazioni. Purtroppo, il fatto che i coltivatori andini non possano quasi più permettersi di consumare la quinoa a causa del continuo lievitare del suo prezzo, che la coltivazione dell’avocado in America sia spesso controllata da gruppi di narcotrafficanti, o che la canna da zucchero sia coltivata a Santo Domingo da manodopera haitiana in condizioni di semi-schiavitù conferisce ai succulenti cibi coloniali un caratteristico, amaro retrogusto.