“Non è stato facile, e non è facile, credetemi, fare una televisione. Perché in Italia non esiste alcun know-how per una televisione privata. Non esistono i tecnici, e quindi noi stiamo formando dei giovani che a poco a poco diventano dei professionisti. Non possiamo prendere i tecnici dalla Rai, prima di tutto perché non lasciano molto facilmente la Rai, e poi ancora perché hanno un altro modo di lavorare: non va bene questo modo Rai per le televisioni private. Quindi una televisione deve diventare con calma, diciamo che è un bambino piccolo, che avrà tutte le nostre cure per diventare grande nel modo migliore”.

Siamo nel 1978. Negli studi di TeleMilano, a Segrate (meglio, nella Milano 2 di recente costruzione), sono riuniti tecnici, cameramen, creativi, assistenti, tutte persone che stavano imparando lì quel loro mestiere nascente, dalla tv via cavo a quella via etere, dalla rete di quartiere all’emittente con il ripetitore sul Pirellone, capace di coprire tutta Milano, pronta al primo dei tanti salti che avverranno nel giro di una manciata di anni. In mezzo allo studio c’è Mike Bongiorno, l’istituzione della televisione italiana, in onda fin dal primo giorno, e in assenza di contratto di esclusiva (la Rai non riteneva ce ne fosse bisogno, ancora) coinvolto quale direttore artistico di una televisione certo locale ma senza alcun dubbio ambiziosa. E a pronunciare queste parole è Silvio Berlusconi, immobiliarista divenuto da poco imprenditore televisivo proprio con l’acquisto di TeleMilano dai fondatori, e destinato in breve tempo a occupare il centro della scena italiana, del suo sistema dei media e non solo.

Riascoltandole ora, colpisce il linguaggio: la richiesta di fiducia a chi sta ascoltando (“credetemi”), l’ironia sottile sui rivali, il ricorso a similitudini facili e immediate per tutti (il “bambino piccolo”), la chiarezza, la volontà di usare la parola in inglese, know-how, e lo sfrigolio tra la modernità internazionale e la timida pronuncia milanese. Di più, colpisce che ci sia già molto, o forse tutto, di un’idea di televisione, di media, di comunicazione: la sfida al monopolio e più ancora alle consuetudini, la voglia e l’obbligo di puntare subito in alto, e poi proprio il know-how, il saper fare. Una lingua tutta da costruire, uno spazio ancora vuoto da presidiare.

Nel sottobosco di imprenditori e di maneggioni che a metà degli anni Settanta si avventa sull’emittenza locale, innamorandosi delle opportunità creative e comprendendone le enormi potenzialità di guadagno, Berlusconi inizialmente è uno dei tanti. Può farsi largo oppure cadere, fallire, come molte figure a lui simili che sbucano come funghi in ogni regione. Ma uno dei tanti Berlusconi lo resta per pochissimo, e – che sia per visione, per fortuna, per furbizia – in breve tempo diventa il volto di punta e la testa di ponte di un processo di commercializzazione di un sistema audiovisivo e mediale a cui il monopolio di servizio pubblico stava ormai parecchio stretto, in Italia come in tutta Europa – e proprio in Francia, in Germania, in Spagna, con alterne fortune, Berlusconi tenterà di riprodurre le formule italiane, modellate sulla tv statunitense, o meglio ancora su un’impressione, un’illusione di America. Già TeleMilano, nel paio d’anni in cui fa sul serio, costruisce volti, confeziona programmi capaci di circolare altrove, li mette assieme in un palinsesto ampio e ricco, richiama gli spot di inserzionisti nazionali e globali, dialoga con il pubblico e con la politica, mescola il teatro dialettale e i comici del Derby, I sogni nel cassetto, il calcio, la discoteca.

Silvio Berlusconi, in fondo, non ha mai inventato nulla, e pure quella di “grande comunicatore” è forse soltanto un’etichetta pigra, un automatismo ormai banale

Nel 1980, i rapporti, le alleanze e le acquisizioni di reti locali in tutta Italia consentono la trovata del “pizzone”, l’insieme di cassette registrate e distribuite per trasmettere tutti gli stessi programmi, e le stesse pubblicità, più o meno alla stessa ora, aggirando con scaltrezza i vincoli di legge e le sentenze che consentivano alla tv privata di agire solo in ambito locale: Canale 5 è un network, una rete di emittenti, e di fatto ha un’unica programmazione nazionale. Berlusconi occupa più spazio possibile, lo mantiene, lo difende: potenziando l’emissione con antenne e ripetitori che a poco a poco subentrano al pizzone; acquistando dagli Stati Uniti e dall’estero quei film, telefilm, cartoni animati, diritti sportivi, che la Rai da sola centellinava e che qui danno sostanza allo zapping; convincendo le grandi star del servizio pubblico a mettersi in gioco altrove e insieme proseguendo la sperimentazione nei linguaggi del secondo canale post-riforma e delle reti locali ruspanti (quella che Eco chiama “neo-televisione”); usando il palinsesto come una clava contro i concorrenti (Dallas contro Dynasty, Uccelli di rovo contro Venti di guerra, i quiz di Mike contro la Rai) e sviluppandolo quale scienza esatta, fatta di target, variazioni, cicli, abitudini (con Carlo Freccero, Roberto Giovalli, Giorgio Gori).

Nel 1982 Berlusconi compra Italia 1 da Rusconi, due anni dopo la sanguinosa battaglia con Mondadori aggiungerà Retequattro all’insieme di reti Fininvest, e lo scontro dal mercato si sposta al piano legislativo, dapprima con l’oscuramento dei pretori nell’ottobre 1984 a cui risponde il presidente del Consiglio Craxi per decreto (tra le proteste della gente, adeguatamente microfonata, e ormai abituatasi all’abbondanza di offerta, alla possibilità di scelta, alla ricchezza di immaginario gratis), e poi con la legge Mammì del 1990, che cristallizza il duopolio, i ricorsi, i referendum, la “discesa in campo”, la par condicio, il sistema integrato delle comunicazioni (sic, che agisce insieme da sigla e da commento) della Gasparri, e poi ancora…

Silvio Berlusconi, in fondo, non ha mai inventato nulla, e pure quella di “grande comunicatore” è forse soltanto un’etichetta pigra, un automatismo ormai banale. La forza dell’imprenditore televisivo italiano per eccellenza, e dei suoi numerosi sodali a TeleMilano, a Canale 5, nel gruppo Fininvest e oltre, è stata soprattutto la capacità di mettere a sistema, di trasformare l’intuizione alata in una pratica concreta, in un agire, appunto in un know-how. Imparare da chi ne sa, importare e adattare da fuori, capire i limiti di chi si ha contro e saperli sfruttare, allinearsi ai bisogni, debolezze e difetti della comunità, di un’intera nazione. Agire con coinvolgimento e passione (come nello sport), muoversi con determinazione, spesso anche con spietatezza. Berlusconi ha saputo intercettare il desiderio di un’altra tv – un cambiamento che era comunque inevitabile, un bisogno diffuso nei mercati, negli immaginari, nelle attese della gente – e incanalarlo per arrivare primo e mantenere in ogni modo questa primazia il più a lungo possibile.

Berlusconi ha avuto la capacità di considerare tutto e tutti, solo e sempre, in primis come pubblico, senza differenza tra quello degli spettatori delle tv, quello dei consumatori e quello degli elettori di una democrazia

È stato il simbolo, l’icona (ora trionfante ora sacrificale), il corpo (sacro, scalfibile, diventato meme) di una contemporaneità cui l’Italia arriva sempre tra molteplici compromessi. Nel settore televisivo e mediale, prima, e poi in un approccio che si espande fino a inglobare la cultura, la società, la politica, tutto, la chiave di Berlusconi è nel mestiere del pubblicitario – e il manuale di istruzioni più limpido è Berlusconi in Concert, il libro-reportage di Gigi Moncalvo e Stefano D’Anna che lo pedinano nei tour promozionali, nelle convention di Publitalia e negli incontri con piccoli e grandi investitori pubblicitari sparsi per tutto il Paese, in coda agli anni Ottanta. Vendersi nel modo migliore, certo, ma anche e soprattutto studiare, calcolare, prevedere: la comprensione approfondita del campo da gioco, dell’offerta, degli avversari; il posizionamento della propria proposta in uno spazio ancora aperto, non presidiato; la gestione basata più sui dati che sugli ideali, più sulle piccole convenienze e sulle scomode realtà che sulle bugie che pure tutti amiamo raccontarci. Berlusconi è stato il nuovo, e anche il vecchio travestito da nuovo, innovatore e conservatore insieme: come scrive Peppino Ortoleva in Un ventennio a colori (Giunti, 1995), “la televisione commerciale è la novità che si presenta come strumento di resistenza alle novità; dà veste di modernità a immagini, formule, valori rassicuranti”. Berlusconi ha avuto la capacità di considerare tutto e tutti, solo e sempre, in primis come pubblico, senza far troppa differenza tra quello degli spettatori delle tv, quello dei consumatori degli spot e dei supermercati, e quello dei cittadini ed elettori di una democrazia.

Fuori dagli interessati entusiasmi e dalle facili demonizzazioni, il Berlusconi televisivo e mediale resta e resterà quello che ha costretto tutti – in televisione prima, in politica poi – a tenere conto della massa, di quanto può essere rassicurante e liberatorio il mainstream, delle sue parti sfrontate e in piena luce e di quelle inconfessabili, o confessate solo a posteriori. Senza gerarchia, senza giudizio, in quello spazio di libertà apparente – e convincente – fatto di lustrini, colori artificiali, sorrisi, abbondanza di contenuti in onda e merci nel carrello. A partire da quel primo discorso pubblico a TeleMilano, la televisione privata si è fatta maggiorenne, adulta, anziana persino, sempre con Berlusconi. E la sua più grande forza – di cui ancora non sappiamo misurare fino in fondo tutte le conseguenze – è stata nel know-how, il saper fare (televisione, impresa, politica) costruitosi e modellatosi lungo questo veloce processo di crescita; e allo stesso tempo, insieme, nell’inestricabile confondersi, tipico della tv e meno della realtà, tra il piano dell’azione e quello della rappresentazione, nel saper far sembrare . Riuscendo a convincerci – le tante volte in cui gli è stato possibile – che la differenza tra il fare e il sembrare, oggi, non è poi così importante.