All’improvviso, il suono delle pale dell’elicottero della polizia è silenziato dall'urlo liberatorio di migliaia di donne e uomini, stipati nei settori del decadente stadio Diego Armando Maradona (già Attila Sallustio, già san Paolo). Una folla, una fiera, che ha fatto della propria gabbia un trampolino per tuffarsi in una città che non ha confini certi. “I campioni dell’Italia siamo noi” è il coro che sembra suggellare il misticismo di un rito collettivo. Anche il padrone, il patron De Laurentiis, scende al centro della scena: “Abbiamo vinto e vinceremo”.

Una coltre rosso-azzurra ricopre non solo la città di Napoli, ma l’intera area metropolitana, dalle pendici vesuviane fino agli instabili Campi Flegrei, sin verso l’entroterra della campagna meccanizzata, la tristemente nota Terra dei Fuochi. Ma anche altrove. Nei luoghi della diaspora napoletana, da Parigi a Stoccarda, da Marsiglia a Bologna, Modena, Carpi, Varese, Treviso.

Se i primi due scudetti, figli del Secolo breve, ci hanno raccontato una città dolente e irrequieta, questo terzo titolo, arrivato a 33 anni dalla caduta del Muro di Berlino, ci racconta la mutazione antropologica che ha trasformato le sponde della città affacciata sul Golfo.

A Napoli, il 4 maggio è la data tradizionale degli sfratti, ossia dei traslochi. Gli inquilini, morosi o cui semplicemente era terminato un contratto di locazione, erano obbligati a lasciare gli appartamenti a nuovi locatari o a metterli a disposizione dei padroni. Una data fissata nel lontano 1611 dal viceré spagnolo Pedro Fernández de Castro, conte di Lemos. Un giorno di confusione, di cambiamento, di trasformazione individuale e collettiva. Strade piede di carri improvvisati stracolmi di masserizie condotti da famiglie in cerca di nuovi approdi. Una giornata particolare che ritornava puntuale ogni anno.

Francesco Mastriani, tra i primi scrittori a concentrarsi, nel XIX secolo, sui molteplici caratteri dei Vermi, quel proletariato marginale napoletano che è al centro della sua opera letteraria, ha cambiato casa per ben 32 volte nella sua vita, condividendo lo stupore, l’ansia e l’ebbrezza del 4 maggio. Ça va sans dire, quindi, che si tratta di una data diventata tradizione, poi scomparsa ma rimasta negli usi linguistici della città, che affliggeva gli strati proletari, quelle configurazioni storiche che non hanno avuto, e non hanno, accesso a titoli di proprietà abitativa, ma che, al contrario, erano e sono immerse in una precarietà abitativa ed esistenziale. Un disagio che veniva e viene diluito, ammortizzato nella partecipazione a momenti di festa collettiva, nel proiettarsi come protagonisti di eventi memorabili, storici, in una sorta di sublimazione collettiva capace di instillare nuova linfa vitale, di alimentare prospettive e delineare orizzonti altrimenti decisamente sconfortanti.

Il 4 maggio del 2023, alle 22 e 37, il triplice fischio dell’arbitro alla Dacia Arena di Udine ha sancito la vittoria matematica del terzo scudetto della Ssc Napoli. In quel momento ero anch’io all’interno dello stadio Diego Armando Maradona, stracolmo di tifose e tifosi accorsi per assistere alla partita con l’Udinese su dieci grandi schermi, allestiti in fretta e furia dalla Società e dal Comune di Napoli. Un urlo liberatorio, seguito da decine di esplosioni pirotecniche non autorizzate, ha dato inizio alla festa notturna, ampiamente attesa e agognata.

Lo stadio che è stato il luogo testimone dell’arrivo trionfante di Maradona a Napoli nel 1984 e dei precedenti due scudetti, nel 1987 e nel 1990. Ma anche teatro della cocente sconfitta, sempre nel ‘90, della nazionale italiana di Vicini e Schillaci (quella delle notti magiche per intenderci) contro l’Argentina di Maradona ai mondiali dello stesso anno. Un dramma sportivo in cui i tifosi napoletani furono accusati di scarso patriottismo per non aver fischiato El Pibe de Oro, cosa a cui rimediò lo stadio olimpico di Roma fischiando indecorosamente l’inno argentino all’apertura della finale vinta, in modo assai mediocre, dalla prima nazionale della Germania non più divisa.

Il 4 maggio 2023 rappresenta senza dubbio la nuova data in cui la città e la sua popolazione hanno vissuto una catarsi

Ebbene, il 4 maggio 2023 rappresenta senza dubbio la nuova data in cui la città e la sua popolazione hanno vissuto una catarsi. Già da almeno due mesi le strade – i vicoli del centro come gli stradoni di periferia – hanno iniziato a colorarsi di azzurro, in risposta alla inaspettata cavalcata sportiva della squadra che ha offerto, senza dubbio, un calcio spettacolare e al contempo concreto. Un gioco di squadra capace di distanziare clamorosamente tutte le altre inseguitrici. Un “miracolo” sportivo scaturito da uno scetticismo generale che ha segnato l’inizio del campionato quando, di fronte a un’apparente dismissione del parco dei giocatori più rappresentativi, la società ha investito su nomi sconosciuti, poco altisonanti, destinati, secondo i più, a certificare la subalternità al potere calcistico settentrionale. Al contrario, il 2023 ha visto il successo calcistico del Napoli più forte di sempre, anche di quella squadra mitica capace di vincere il titolo per ben due volte, capitanata dell’estro dadaista del riccioluto numero 10 e della sua mano de dios.

Un successo sportivo, appunto. Nient’altro. Una vittoria, in primo luogo, della società del presidente De Laurentiis e della sua visione imprenditoriale scaltra, opportunista, al limite della filibusta, ma, in ogni caso, capace di ottenere risultati inaspettati nel mondo del calcio moderno, televisivo e globale. Una gestione societaria che si è più volte scontrata con la realtà passionale e sociale del milieu della tifoseria napoletana e con l’insieme della città.

È una rivalsa sociale? È una auto-rappresentazione selvaggia e impolitica di una collettività da sempre vittima di stereotipi e pregiudizi? Chissà. Forse è solo una festa

È l’orgoglio di un popolo e di una città che prende forma nel dipanarsi della folla che esce dallo stadio per invadere le strade? È una rivalsa sociale? È una auto-rappresentazione selvaggia e impolitica di una collettività da sempre vittima di stereotipi e pregiudizi? Chissà. Forse è solo una festa. Una sbornia ben temperata che restituisce i contorni di una modernità che ha oltrepassato gli steccati dello “sviluppo senza progresso”. Un carnevale, un capodanno fuori stagione, che ribalta le narrazioni, che sovverte l’ovvietà degli sguardi paternalisti. Nelle strade della festa aleggiano gli spettri del fatalismo e della tracotanza.

La mattina del 5 maggio, il giorno dopo, ci racconta di uno sfratto avvenuto. Un trasloco della città da una dimensione straordinaria a un’ordinarietà sorprendente. La notte di festa è stata ben controllata. I caroselli di auto e moto sono stati calmierati dai blocchi delle forze dell’ordine. La festa che è andata in scena è stata pedonale, attraversata da famiglie così come da gruppi di ultras. Certo, la folla è stata protagonista della notte, ma è apparsa come una moltitudine addomesticata. Sebbene, fin dal primissimo mattino, autorevoli trasmissioni radiofoniche e siti di informazione accreditati abbiano rilanciato morti e feriti durante i festeggiamenti, sono stati rapidamente smentiti dalla realtà dei fatti. Un giovane di 26 anni assassinato per motivi legati a faide criminali non è vittima degli eccessi napoletani per il terzo scudetto. È, purtroppo, una conseguenza della normalità allucinante che a Napoli si vive da decenni. La festa ha dato occasione per regolare i conti tra bande criminali che, prima, dopo e comunque, si manifestano in città.

I giornali e i loro inviati sono calati in città per raccontare l’eccezione napoletana. Cercano lo scompiglio, l’interpretazione originale, la frase colorata, l’ambientazione folkloristica. Eppure non riescono a vedere una città che, già da tempo, ha cambiato pelle. Una configurazione sociale che, consapevolmente, ha saputo gestire e approfittare di una congiuntura economica che ha avuto nel turismo di massa il suo volano. Una turistificazione favorita da un’inaspettata ma storicamente determinata complicità tra borghesia (improduttiva) e proletariato marginale. Quelli che per decenni (se non per secoli) sono stati descritti come plebe, lazzaroni, sono diventati imprenditori del turismo esperienziale, dell’accoglienza folkloristica, pilastri di un’economia terziaria e claudicante sostenuta dal laissez faire delle amministrazioni comunali e regionali (almeno nominalmente di sinistra) che hanno governato (e governano) da più di un decennio.

Che cosa c’entrano i miti, gli emblemi e le spie di Carlo Ginzburg con il terzo scudetto del Napoli? A prima vista nulla. A vedere bene possono essere, se non delle categorie analitiche, suggestioni interpretative.

Iniziamo dai miti. Nel nostro caso un mito in particolare, un mito del tutto inventato. Alle pendici di via Emanuele De Deo, un vicolo intestato a un martire della rivoluzione del 1799 che si inerpica nei Quartieri Spagnoli, uno slargo rimasto anonimo parcheggio fino a un paio d’anni fa è diventato una tappa obbligata dei percorsi turistici cittadini. Sulla facciata di un palazzo assai sbrecciata, nel 1987 fu realizzato un murales, abbastanza sgraziato, della figura di Maradona nell’atto di dribblare un avversario. Una delle innumerevoli tracce visive lasciate nel tessuto urbano dai festeggiamenti istintivi per il primo e per il secondo scudetto. Qualche mese prima del decesso de El Diez, un falegname artista, divenuto attivista culturale, trovò modo e finanziamenti per restaurare il murales. Lo slargo e il murales, grazie all’emozione seguita alla scomparsa di Maradona, sono diventati, all’improvviso, un santuario capace di sviluppare un pellegrinaggio animato da centinaia di migliaia di turisti e visitatori. Al punto da creare veri e propri sensi unici di percorrenza pedonali, fino a qualche anno prima inimmaginabili. Alla base del murales, il vecchio parcheggio è diventato una miniera d’oro per venditori di gadget pseudo-maradoniani. Uno scenario che ha attratto, oltre che migliaia di ignari turisti, delegazioni istituzionali, rappresentanze di squadre di calcio di serie A, celebrità della scena musicale giovanile. In realtà, quel murales, rimasto per decenni una semplice traccia sbrecciata delle feste degli scudetti napoletani di fine secolo, nulla ha a che vedere con Maradona, la squadra del Napoli o la città. È semplicemente un mito, decisamente inventato, intorno al quale si è sviluppato uno dei molteplici rivoli della turistificazione esperienziale e folkloristica della città.

Se un mito attrae la folla, gli emblemi costituiscono un collante. La città a buon mercato. La città della pizza. La città dell’accoglienza. Una metropoli, al contrario, incapace di interpretare la propria trasformazione

E se un mito attrae la folla, gli emblemi costituiscono un collante. La città a buon mercato. La città della pizza. La città dell’accoglienza. Una metropoli, al contrario, incapace di interpretare la propria trasformazione. Una metropoli che usa i propri emblemi per affrontare una trasformazione incontrollata, selvaggia. Una città che ha trasformato il proprio centro storico (patrimonio Unesco) in un groviglio di micro-appartamenti destinati a sostenere il dispositivo mefitico costellato di aerei low cost e piattaforme modello Airbnb.

La stessa città che il 4 maggio ha festeggiato il successo sportivo della squadra arrembante del mister Spalletti, in una celebrazione di orgoglio collettivo. Un sentimento che, però, non trova riscontro in una quotidianità di disservizi, carenze e sostanziale invivibilità. Un orgoglio che trova nello scudetto una facile forma di soddisfazione, ma che, nei fatti, rinunzia a esprimersi nel tempo e nei luoghi che richiedono, decisamente, una maggiore presenza e un diverso protagonismo. La festa ben presidiata dall’amministrazione (anche se le isole pedonali avrebbero bisogno di un adeguato potenziamento del servizio di trasporto pubblico, il grande assente della notte del 4 maggio) e vissuta in modo assai disciplinato dalla popolazione è, in definitiva, una spia. Un indicatore storico della trasformazione avvenuta. Con debita pace rispetto ai vari commentatori che altro di meglio non hanno trovato che appendersi a citazioni pasoliniane per descrivere la Napoli contemporanea, incapaci, evidentemente, di letture prospettiche e visioni complesse.

L’ebbrezza della notte del terzo scudetto ci indica qualcosa di assai diverso. Nel 1987 e nel 1990 le feste per gli scudetti sono state, a debita misura, dei baccanali urbani. La città era in balìa di se stessa e a se stessa è sopravvissuta. Quelle feste non sono state pianificate. Forse perché il risultato sportivo restò in sospeso fino alla fine. Ma, in ogni caso, per quella folla non si attivò alcun dispositivo istituzionale di gestione. Una folla assai diversa e molto più disordinata del 4 maggio. Quella era una folla vischiosa, novecentesca. Una folla meno internazionale ma cosmopolita. Meno ordinata ma restia al fatalismo. Una folla capace di capire che, all’ombra dello scudetto, di una vittoria sportiva, tutto sommato non cambiava niente. La realtà restava ciò che era sempre stata.

La folla dinamica e ordinata che il 4 maggio 2023 ha sfrattato la città antica dalla città moderna sembra invece cadere in un tranello. In un imbroglio molto ben confezionato. Lo scudetto l’ha vinto una squadra sportivamente ben organizzata e allenata. Non l’ha vinto la città. Non l’ha vinto la sua popolazione che resta preda delle proprie incapacità e tracotanze.