A inizio ottobre ha chiuso il Museo nazionale bosniaco. In questa stagione di crisi, potrebbe sembrare l'esito drammatico della tristemente consueta questione dei tagli alla cultura. La notizia per lo più è stata data in questi termini, talvolta citando le voci di un dibattito che contrappone le istituzioni presunte “vecchie” (i musei) e la nuova e rampante formula dell'“evento” (i festival). Tuttavia, come le testate che si occupano di Balcani sanno bene, il cuore della questione non sta in questo aspetto, che anzi ne maschera uno molto più profondo e peculiare. Il problema del Museo, come di altre sei istituzioni con sede a Sarajevo, risiede in quella denominazione, “nazionale”, che risale a molto prima dell'ultima guerra, quando il termine veniva declinato in un senso differente da quello attuale.

Il Museo nazionale bosniaco venne fondato nel 1888, durante la fase di dominazione austro-ungarica, poi ampliato nel 1913 e accresciuto nel corso del Novecento, accogliendo collezioni archeologiche, naturalistiche, etnologiche e costituendo parallelamente una biblioteca: è divenuto così un fondamentale luogo di conservazione e ricerca attorno alla complessa storia della regione. Il più noto “oggetto” di questo patrimonio è senza dubbio l'Haggadah di Sarajevo, prezioso codice miniato di tradizione sefardita, realizzato a Barcellona attorno alla metà del XIV secolo e giunto nei Balcani dopo la diaspora seguita alla Reconquista spagnola.

Oggi, in una Bosnia che non ha un ministero della Cultura ma solo degli “Affari civili”, la denominazione "nazionale" genera problemi. Se nel corso degli anni Duemila, negli altri Paesi nati dalla disgregazione della Jugoslavia, si è puntato ampiamente sul carattere di “nazione”, intendendola come qualcosa di omogeneo – con tutto quello che ha significato il perseguimento dell'omogeneità etnica –, la Federazione di Bosnia ed Erzegovina, che contiene in sé la Republika Srpska, non può farlo, essendo invece e ancora l'insieme di più caratteri “nazionali”. Per aggirare la definizione si sono scelti giri di parole come “istituzioni culturali di interesse statale”; laddove però in molti, anche al governo, liquidano le sette istituzioni come “sarajevesi”, come fosse un'offesa: Sarajevo come il simbolo di quella mescolanza contro cui si è combattuto per tutti gli anni Novanta. Ecco allora che la chiusura del Museo nazionale bosniaco, arrivata dopo 17 anni di incertezza statutaria derivata dagli accordi di Dayton (chi è responsabile di queste istituzioni? Lo Stato? Il cantone?) e di progressivi tagli ai costi di gestione e manutenzione (con i fondi europei non si possono pagare gli stipendi e le spese ordinarie), assume un carattere fortemente politico.

Dopo la deliberata distruzione della Biblioteca, il museo è rimasto l'unico testimone della ricchezza e della bellezza di quel crogiolo di popoli che è stata la Bosnia (e tutta quell'area). Ed è questo che lo rende senza dubbio scomodo, in una realtà che tende sempre più alla disgregazione e all'esaltazione delle diverse componenti, scisse l'una dall'altra.

Parallelamente, in questi stessi giorni è stata inaugurata la facciata restaurata, grazie a ingenti finanziamenti europei, proprio della Biblioteca nazionale, andata in fumo per il bombardamento incendiario serbo il 26 agosto 1992. Tra i documenti bruciati quel giorno, anche la foto che ritraeva l'arciduca Ferdinando d'Asburgo e la moglie Sofia sulle scale di quello che era allora il Municipio (la Viječnica, nome con cui ancora tutti in città chiamano l'edificio della biblioteca) pochi minuti prima di essere uccisi, il 28 giugno del 1914. L'imponente palazzo moresco non tornerà però a ospitare la Biblioteca nazionale e universitaria, nel frattempo faticosamente ricostituita grazie a donazioni ricevute dopo la fine del conflitto, ospitata all'interno di locali riadattati nella periferia della città, e a oggi nella lista delle sette istituzioni oggetto dei tagli. Forse l'edificio avrà un nuovo ruolo di rappresentanza, ma per ora resta vuoto, con il suo carico di tanti e duri passaggi della storia.

Sempre grazie a donazioni, negli ultimi dieci anni anche il progetto Ars aevi ha costituito un'importante raccolta d'arte contemporanea e ricevuto un progetto per un “contenitore” firmato da Renzo Piano. Ma non si è scelto di puntare su Sarajevo come “nuova Bilbao”, forse – e di nuovo – come se fosse sgradito attirare attenzione su una capitale simbolo di una fase multietnica da dimenticare, e la collezione rischia così di disperdersi.

Per settant'anni, dal 1914 al 1984, l'Europa e il mondo non avevano più sentito parlare di Sarajevo: dopo l'assassinio capace di innescare una guerra mondiale, sono state le Olimpiadi invernali, i giochi della pace, a riportare l’attenzione su quella piccola capitale circondata dalle montagne. Le stesse da cui, nel lungo assedio durato dal 1992 al 1995, sparavano i cecchini, a volte proprio dalle strutture sportive. I musei, le gallerie, le biblioteche della città non avevano mai chiuso, neppure durante quegli anni terribili.

Oggi le alture attorno a Sarajevo sono piene di tombe bianche e i simboli di una “nazione” perduta chiudono nell'indifferenza, benché non siano più solo “musei” ma veri e propri memoriali di una cultura multietnica, assediata, devastata e, peggio, infine rimossa.