Mai, tolta la stagione del terrorismo politico e mafioso, l’Italia repubblicana ha vissuto una stagione tanto difficile e angosciosa. Imperversa un governo d’estrema destra, a conduzione Salvini. Un governo di destra ci sarebbe stato comunque. Avesse vinto il centrodestra, Salvini avrebbe verosimilmente sopraffatto Berlusconi, che è avanti negli anni, logoro e preoccupato unicamente del futuro delle sue aziende. Salvini l’avrebbe rassicurato e Berlusconi si sarebbe arreso. Il realismo non gli manca. Una terza possibilità, più remota, visti i numeri, sarebbe stata un governo Pd/Forza Italia. Sarebbe stato un governo di centro, o un governo di destra? Comunque un governo gradito ai partners europei, mascherato da centro, com’è mascherata da centro la maggioranza che governa al momento la Francia.

L’accordo Lega/M5S è probabilmente meno di destra di quanto non sarebbe stato un governo Salvini/Berlusconi. Se non altro in ragione dell’elettorato del M5S e delle promesse con cui esso è stato attratto. Il rischio maggiore che però al momento si corre, e i sondaggi mostrano quanto sia attuale, è una generalizzata etnicizzazione del principio di cittadinanza, insieme alla trasmigrazione verso l’estrema destra non solo dell’elettorato di FI, ma pure di quello a 5 Stelle, che si è comunque riconosciuto nel governo Conte. Parte non secondaria di questo elettorato, ricordiamolo, arriva da sinistra.

Condotta spregiudicatamente da Salvini, la campagna di etnicizzazione, e di criminalizzazione dei migranti e di chi li soccorre, ha un robusto punto di appoggio: perché mai l’Italia da sola deve farsi carico di un problema tanto grave? Anche molti di coloro che non sono ostili ai migranti, e non cascano nella trappola dei migranti che rubano lavoro e portano malattie, possono rivelarsi sensibili a tale argomento. Diverranno ipersensibili se dall’Europa seguiteranno stolti attacchi a Salvini da parte di chi, come Macron, verso i migranti si è mostrato tante volte spietato. Gli esseri umani pensano per associazioni di idee spesso approssimative. Salvini difficilmente riuscirà nella missione impossibile d’arrestare i flussi, salvo provocare molti morti in mare in più. Ma per lui contano le mosse simboliche: evocherà l’assenza di solidarietà europea, solleciterà appunto l’orgoglio nazionale e terrà altissima la tensione. Il progettato censimento dei rom ne è un segno. E già i sondaggi registrano come i suoi discorsi trovino ascolto perfino a sinistra.

Molto meno fausto appare il destino del M5S. Le possibilità che il suo programma sia applicato, anche in minima misura, sono bassissime. Non solo perché incompatibili con la condizione debitoria del Paese – l’ha testé confermato il ministro Tria – ma pure perché a Salvini del cosiddetto reddito di cittadinanza non gliene importa un fico secco. Figurarsi del Mezzogiorno. Lui investe nello spostamento dell’attenzione degli elettori, meridionali e non, dalla propria effettiva condizione di disagio a una supposta condizione d’insicurezza. È stato notato da molti: il M5S si è cacciato in una trappola, da cui è difficile esca riconvertendosi anch’esso alla guerra agli immigrati. I sondaggi suggeriscono che, tuttora, la priorità dei suoi elettori è il lavoro e la loro condizione economica. Il rischio che divengano securitari e votino Lega è elevato, tanto più sentendosi traditi nelle loro attese dal M5S. In più: le prove di governo degli amministratori locali di quest’ultimo sono così modeste – probabilmente lo saranno pure quelle dei suoi ministri – che difficilmente gli consentiranno un recupero.

Bisogna convincersene. Il populismo è la versione rinnovata del fascismo. Non c’è stata la Grande guerra, ma c’è stata una Grande crisi. Non c’è la violenza di piazza, ma sovrabbonda la violenza verbale. C’è il razzismo, benché privo della pseudo-teoria che l’accompagnò negli anni 30. C’è soprattutto un disagio sociale vastissimo e c’è il decadimento sociale di una parte molto ampia della popolazione. Non c’è neppure, ed è un enorme vantaggio, uno schieramento d’opposizione. Ed è anche l’opposizione a fare il governo. È una condizione non esclusiva dell’Italia, ma in Italia è molto più grave. Dove colpisce ancora il silenzio del Pd sui motivi della sua devastante sconfitta. Dalla parte del Pd non si è andato molto oltre che imputarla a una sbagliata campagna elettorale o a non essersi spiegato a sufficienza, ignorando il fatto che gli elettori non hanno bocciato le liste o il nome indicato sulla scheda, ma cinque anni di governo, l’incremento della povertà, le incertezze sull’emigrazione. Su questi cinque anni il partito non ha tentato nemmeno un abbozzo di riflessione seria. Mentre l’unica azione politica condotta dopo il 4 marzo è stato il rifiuto anche solo a parlare con il M5S, rivangando gli insulti, sanguinosi e incivili, di cui era stato bersaglio. Infine, una volta che lo si è gettato tra le braccia della Lega, non si trova di meglio che irridere alle sue mosse maldestre e alla sottomissione a Salvini.

Il M5S non è un partito. Né un movimento. Gli manca un progetto e ha una classe dirigente raccogliticcia. Non è neppure populismo di estrema destra. È una jacquerie, non da reprimere, ma da capire. Forse, anziché sbeffeggiarlo, e consumare contro i suoi elettori una miserabile rivincita, che sta riconducendo l’Italia al fascismo o qualcosa che gli somiglia, andava capito e aiutato. La politica non si fa col risentimento e col rancore, anche se ce n’è qualche ragione. Il Pd si è mostrato risentito e rancoroso, ma non pare avere la benché minima idea su dove andare. Non ce l’ha forse perché non può averla, perché è un partito nato storto, sposando strumentalmente culture politiche illustri, ma diverse, lacerato già in partenza, tutto fondato sulla liturgia spoliticizzante delle primarie: basta eleggere un leader, magari scelto dai media e poi il partito è messo a nanna.

Non sembra nemmeno, il Pd, avere il pragmatismo di fare qualche conto. Con questa e con qualsiasi altra legge elettorale costituzionalmente accettabile, avrà sempre bisogno di alleati. Un eventuale, e possibile, fallimento del governo Conte non gli assicurerebbe di certo, in caso di scioglimento anticipato delle Camere, che qualche infima chance di recupero. Stando le cose per come stanno attualmente anche il vagheggiato incontro al centro con Berlusconi difficilmente potrebbe produrre una maggioranza in grado di governare. Ed è anche difficile che la macronizzazione del partito, che punti a incorporare i resti di Forza Italia, possa andare più lontano. Se gli restasse almeno un po’ di pragmatismo, ragionerebbe sulla possibilità di trovare presto o tardi un accordo con 5 Stelle, strappandolo – malconcio – alle grinfie di Salvini e sperando che non collassi di brutto: collasso da cui comunque caverebbe poco frutto.

Tutto questo però richiederebbe da parte del Pd umiltà, generosità e un ripensamento di indirizzi di policy seguiti ormai da tempo: in particolare la supina adesione all’ortodossia neoliberale. È l’attuale ceto dirigente in grado di una rimodulazione così radicale della propria offerta politica? È in grado di proporre, oltre che un accordo leale col M5S, una rappacificazione altrettanto leale con quelle sue componenti che si sono allontanate? E di rappacificarsi con quella parte di elettorato che lo ha abbandonato? In politica niente è impossibile. Ma forse per il Pd questa è fantapolitica.

 

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